la Repubblica, 25 febbraio 2019
Sulla Fedeltà di Marco Missiroli
Fedeltà di Marco Missiroli (Einaudi), al terzo posto nella classifica dei libri più venduti, è un manufatto lavorato con estrema cura, persino troppa, per somigliare al suo modello. Però resta una imitazione. Qual è il modello? Philip Roth in epigrafe, e “la naturalezza dei grandi narratori” (risvolto di copertina). Per molte ragioni è un’abile imitazione. Assume un tema universale – il tradimento – calandolo in una storia del nostro tempo, orchestra sapientemente un coro variegato di personaggi (svincolandosi dalla moda dell’autofiction seriale!), riusa in modo originale il montaggio cinematografico “per analogia” dove scene di narrazioni diverse si infilano l’una nell’altra, intreccia il quotidiano con la Storia (crisi economica, mutazione del paesaggio e dei sentimenti...). Le visite alla chiromante, che aveva tra i suoi clienti Buzzati, ci ricordano infine il legame tra il genere del romanzo e la decifrazione del destino. Ma per altrettante ragioni, resta ben al di qua del modello.
Anzitutto la lingua. Sembra in verità affilata, di millimetrica precisione. Tuttavia si tratta solo di una elegante e un po’ scolastica vernice. Un classico diceva che non ci vuole più esattezza e meno anima ma più esattezza nelle cose dell’anima. In Fedeltà tutta l’esattezza si esaurisce nella descrizione iperrealistica dei massaggi fisioterapeutici ( “capì che doveva sciogliere una piccola contrattura a livello ischio-crurale") e dei dettagli dell’amplesso, e in una minuziosa topografia urbana milanese. Quasi a compensare una certa approssimazione nel racconto dell’"anima”, delle relazioni. Non si capisce bene cosa provano i vari personaggi, a meno di non dare credito alle loro parole, che peraltro “non pensano affatto”.
Anche l’uso della metafora punta soprattutto all’effetto. La ventiduenne Sofia arriva da Rimini alla stazione Centrale “scorticata dai desideri”. Perché “scorticata”? Ci arriva con le sue insicurezze, i suoi presagi, e tutto il suo candore di provinciale (che manca agli altri personaggi): dovrebbe sentirsi più esitante che lacerata. Quell’aggettivo un po’ esibizionistico fa tanto Roth con diploma di creative writing. I dialoghi risultano a volte troppo “scritti": va bene che il protagonista insegna scrittura ma quando uno conversa al bar con un’ alunna può dire di un pulcino regalatogli da bambino “... le zampette acquisivano una propulsione timida e allo stesso tempo irrefrenabile”? Mentre sulle molte frasi che si interrompono sulla preposizione ("ma gli ho detto che.") si potrebbe aprire un dibattito.
La trama ricorda un po’ Vergogna di Coetzee. Il docente precario Carlo, trentacinquenne semifallito (ha avuto il lavoro grazie al padre) è sorpreso in bagno con la alunna Sofia in un incontro ravvicinato, però suscettibile di interpretazioni diverse (forse lei era svenuta e lui la stava soccorrendo). È sposato con Margherita, architetto che lavora come agente immobiliare. L’episodio del bagno, benché equivoco, innesca una spirale di sospetti. Carlo è ossessionato dal corpo di Sofia, proprio per una relazione mai conclusa. Lei torna alla sua provincia. Intanto Margherita prova una imprevista eccitazione con il suo fisioterapista gay Andrea, delicato ("mani da pianista e discrezione da monaco") ma anche oscuramente attratto dalla ferocia (i combattimenti dei cani).
La madre di Margherita, la “arzilla” Anna, che ha un incidente, sembra essere un controcanto di senile saggezza capace di semplificare per un attimo la “complicata” Milano. Carlo e Margherita si tradiscono, si mentono a vicenda (lui “intemperante” e manipolativo, lei più calcolatrice), avvolti in una nuvola gassosa di bugie e confessioni a metà, che nascondono la incoercibile urgenza di impulsi “primordiali” e “voglie sconfinate” (l’unica cosa vera: per loro vivere è eccitarsi). Qui Missiroli è a sua volta “tradito” da una eccessiva comprensione verso di loro. A nessun personaggio si nega una quota sindacale di pietas, però date certe premesse l’autore avrebbe potuto scrivere un romanzo incisivo e disturbante sul nostro presente, sul Desiderio e la Classe Media (sui suoi autoinganni e “smottamenti”, sui suoi inesauribili aggiustamenti per “riabituarsi”, parola-chiave).
Invece preferisce rifugiarsi nel “disegno a stella ricavato dai sampietrini”, nel pesce turchese del piccolo Lorenzo che veglia su Anna, nella nebbia felliniana – inesorabilmente poetica – intorno al Grand Hotel di Rimini, in una scrittura fluida e glamour, che può rischiare il midcult degli aforismi morali ("Che parola sbagliata tradimento. Rispetto a cosa avrebbe tradito?"), mai il cattivo gusto (come invece accade a Coetzee, Roth e ai “grandi narratori"). Una scrittura troppo “fedele” a lettori inclini a non resistere alle tentazioni e ansiosi di ricucire subito ogni cicatrice.