la Repubblica, 27 febbraio 2019
De Gregori ricomincia da capo
Agli artisti capita, qualche volta.
E capita soprattutto ai protagonisti della musica popolare. Per una semplice ragione: sanno di essere espressione di una comunità, sanno di aver ricevuto a suo tempo una delega, un mandato di rappresentanza.
E quindi di tanto in tanto sentono il bisogno di tornare a immergersi nella comunità da cui provengono e dalla quale il successo, la logica dei numeri e dei grandi concerti, li hanno inesorabilmente allontanati. Sentono magari anche il bisogno di parlare, di raccontarsi in modo più raccolto, intimo, di percepire l’effetto delle parole così come cadono in mezzo alla platea.
Di sicuro Francesco De Gregori, che da domani sarà per un mese al Teatro Garbatella (220 posti appena) ha provato l’irresistibile desiderio di guardare negli occhi i suoi ascoltatori, di vedere come sono, come si vestono, quanti anni hanno, di che pasta sono fatte le loro emozioni e le loro passioni.
Così come è successo a Bruce Springsteen che in teatro alla fine c’è rimasto per un anno intero, pagando con molti interessi un debito di vecchia data contratto con la più accanita fanbase di tutti i tempi, e finendo per comporre davanti alla sua gente, sera dopo sera, una sorta di accorata e dolorosa autobiografia. Ma andando a rovistare negli archivi scopriamo che quell’insano desiderio prima o poi è venuto a tutti, e per farlo magari hanno organizzato concerti a sorpresa, segrete scappatelle, pur di ritrovare l’atmosfera del club, del piccolo concerto, di tornare lì dove tutto è cominciato. È successo a Paul McCartney che addirittura una volta è tornato al Cavern, la caverna primigenia che ha generato gli eroi Beatles; è successo ai Rolling Stones; succedeva di continuo a Prince che anche dopo i grandi concerti di massa andava a cercarsi un localino per attraversare la notte suonando davanti a poca gente. De Gregori non poteva tornare al Folkstudio, dove con Antonello Venditti e altri cominciò la sua storia, perché purtroppo quel locale non esiste più, ma c’è sempre un luogo, possibilmente piccolo, possibilmente intimo, dove poter ritrovare il senso ultimo del proprio lavoro, quello da cui si era partiti: cantare per la gente, di fronte alla gente