il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2019
11.300 miliardi: il nuovo record del debito e la prossima crisi
Si sta preparando la prossima crisi? Da dove colpirà questa volta? Il dibattito tra gli economisti è cominciato da un po’, le risposte sono varie. Inclusa quella più banale: arriverà dal debito, ancora una volta, come nel 2007, quando i mutui senza garanzie americani hanno scatenato il disastro che ha poi travolto la fiducia nel debito pubblico degli Stati in Europa (è un po’ più complicato di così, ma spiega tutto Adam Tooze in Lo schianto, Mondadori). L’Ocse, l’organizzazione dei Paesi industrializzati basata a Parigi, ha appena pubblicato numeri che dovrebbero far venire qualche brivido.
Nel 2007, l’anno in cui è esplosa la bolla dei mutui subprime americani, i governi dei Paesi Ocse hanno preso a prestito dal mercato 10.900 miliardi di dollari, tra nuovo debito e rinnovo di quello in scadenza. Ci sono voluti dieci anni per tornare su quel livello, nel 2018 siamo arrivati a 10.800 miliardi. E adesso, nel 2019, le stime dell’Ocse dicono che di miliardi ne serviranno 11.300. È il nuovo record. Mai i governi sono stati così dipendenti dai mercati per finanziare le proprie spese.
Niente panico, però. In media i Paesi industrializzati hanno saputo sfruttare bene questi anni di politica monetaria espansiva: grazie ai tassi di interesse bassi o addirittura negativi, hanno aumentato l’indebitamento ma senza veder crescere di pari passo anche la spesa per interessi. Quindi c’è tanto debito ma costa poco. Non solo: soprattutto i Paesi con un indebitamento elevato e complesso da gestire, come l’Italia, hanno approfittato di questa bonaccia per allungare la durata media dei titoli. Adesso nell’area Ocse il debito pubblico scambiato sul mercato ha una durata media residua di 8 anni, che è molto elevata. In caso di emergenza, se cioè i costi di finanziamento dovessero salire all’improvviso, basterebbe emettere un po più titoli a breve scadenza (che costano meno di quelli a lunga) al posto di quelli per esempio decennali che arrivano a scadenza e che sarebbero più costosi da rinnovare.
In alcuni Paesi, poi, il Pil sta crescendo più rapidamente degli interessi e questo contribuisce a ridurre il peso del debito. L’Italia non è tra questi, purtroppo. La montagna del debito è ancora più alta di quella del 2007 ma sembra un po’ più solida. Fine delle buone notizie. Passiamo a quelle cattive.
Intanto si registra dal 2017 un lento aumento del costo medio del debito, ancora poco percepibile in media perché ci sono Paesi che continuano a emettere titoli a tassi addirittura negativi. Ma come abbiamo visto in Italia con la crisi dello spread a dicembre scorso, basta poco a far impennare i costi: i Btp a 10 anni sono arrivati quasi al 3 per cento di rendimento. Poi ci sono governi su una traiettoria preoccupante, tra politiche autoritarie, economia reale fragile e pericolo di andare incontro a una crisi sia di credibilità del debito pubblico sia di tassi di cambio: secondo l’Ocse sono la Turchia, il Messico e l’Ungheria. Qualche scossone politico – magari per i risultati delle elezioni europee di maggio – potrebbe poi scatenare ondate di vendite i cui effetti sono difficili da prevedere oggi. Ma forse, visti i precedenti, il dato più preoccupante riguarda la profonda evoluzione della “torta” complessiva del debito pubblico: nel 2007 il Paese che era più dipendente dal mercato era il Giappone, che valeva il 39 per cento di tutti i bond sovrani in circolazione. Oggi la quota dei giapponesi è scesa al 26 per cento mentre quella degli Stati Uniti è salita dal 20 al 25 per cento. È vero che gli Usa possono contare su una Banca centrale, la Federal Reserve, pronta a tutto, e sul dollaro che resta la valuta di riserva dell’economia mondiale. Ma sono loro i grandi protagonisti della nuova ondata di debito pubblico, molto più dei Paesi europei (la quota dell’Italia si è addirittura ridotta dal 9 al 6 per cento).
Negli Stati Uniti anche il debito privato è tornato a crescere molto in questi anni, secondo un altro report Ocse appena pubblicato: le imprese emettevano 401 miliardi all’anno di corporate bond, prima della crisi, per poi salire a 668 miliardi, nel 2015 e nel 2017 le imprese americane hanno raggiunto il picco, sopra gli 870 miliardi. Però se nel 2007 gli Usa e le imprese americane erano i protagonisti indiscussi anche delle obbligazioni private, oggi tutto è cambiato. Dieci anni fa la Cina non era neppure percepibile nelle statistiche sui corporate bond, ora è al secondo posto nel mondo, con 590 miliardi emessi in un anno (dato 2016).
La crescita dei corporate bond negli Usa è stata tutto sommato limitata, ma nel decennio 2008-2018 la quantità di obbligazioni societarie emesse ogni anno a livello mondiale è passata da 864 miliardi ogni anno a 1.700 miliardi. E durante questo boom, osserva l’Ocse, è scesa la qualità di quelle obbligazioni, che hanno in media rating più bassi di prima. Tradotto: c’è più debito privato in circolazione, ed è più rischioso di quello di prima del 2008. Una gran parte di questo arriva da Paesi in via di sviluppo o con autorità di controllo poco indipendenti, dove le incognite sono quindi maggiori. E la prossima crisi potrebbe non essere così lontana.