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 2019  febbraio 27 Mercoledì calendario

Intervista a Von Trier: «Il mio inferno»

Si comincia con un dialogo nel buio. Due voci maschili. Due viandanti diretti chissà dove. Forse all’Inferno. O forse a La casa di Jack, nuovo e molto discusso film di Lars von Trier, da domani nelle sale con il divieto ai minori di 18 anni. A turbare non è solo il fatto che Jack sia un serial killer ma anche un esteta del male, sostenitore dell’omicidio come opera d’arte. Le sue vittime, donne, uomini, bambini, finiscono tutte dentro una camera di Barbablù, un grande congelatore, in attesa d’essere composte in una macabra installazione.
Da lì la calata agli Inferi da metaforica si fa reale: Jack e il suo mentore, Matt Dillon e Bruno Ganz, svelano la loro identità, l’uno sotto il rosso cappuccio di Dante, l’altro come Virgilio. «A ispirarmi è stata la Divina Commedia — racconta da Copenaghen von Trier —. Un poema che amo nonostante la mia difficoltà di cogliere certi nessi con la storia italiana. Mi piaceva l’idea di un uomo che per pareggiare i conti con i nemici, li manda all’Inferno con debiti tormenti. Dal punto di vista visivo i riferimenti sono stati alcuni disegni di Blake e un famoso quadro di Delacroix, La barca di Dante. Nel film l’ho ricostruito in modo preciso».
Quanto c’è di lei in Jack?
«Lo considero un mio alter ego, con la differenza che lui i suoi demoni interiori li realizza nel crimine, io li proietto sullo schermo. Entrambi ci inoltriamo nella “selva oscura” del male alla ricerca del bene. Dio e Satana convivono dentro di noi».
Jack confessa le sue malefatte ma non si pente.
«Nemmeno io. Questo è il mio primo film dopo lo choc di Cannes, messo al bando per sette anni come persona non grata, accusato di essere nazista. Una mia frase stupida su Hitler è stata strumentalizzata, non mi è stato dato modo di spiegare che la compassione non era per il mostro ma per l’uomo chiuso nel bunker con le sue spaventose responsabilità. No, non mi sono mai sentito colpevole. Non sono un nazista, i miei quattro figli hanno tutti nomi ebraici. Mia moglie avrebbe voluto che lo facessi presente, ma mi sembrava un trucchetto a buon mercato. Meglio sette anni di esilio».
Il sogno di Jack è costruire una casa. Continua a provarci ma fallisce sempre.
«Mia madre avrebbe voluto che facessi l’architetto. So di averla delusa, anche se in punto di morte, dopo avermi svelato che mio padre non era mio padre, ha ammesso che ero un bravo artista».
Le variazioni sul crimine di Jack sono scandite da variazioni bachiane suonate da Glenn Gould in brevi filmati.
«Lui rappresenta l’arte pura. Fine a se stessa come lo è la violenza di Jack»
Arte e cultura non sono un baluardo contro il male?
«Temo di no. In una sequenza mostro la quercia che sorge nel campo di Buchenwald. Non un albero qualsiasi, la quercia di Goethe, sotto la cui ombra ha composto alcuni versi sublimi. Un segno di massima civiltà nel cuore del massimo orrore. E i Paesi con le culture più raffinate, la Germania, l’Italia, il Giappone, sono passati alla storia per le peggiori atrocità».
Oggi sembrano risorgere nei tanti movimenti di destra estrema.
«La democrazia è al tramonto, abbiamo vissuto la sua età dell’oro senza rendercene conto. Nazionalismi, populismi, l’arrivo al potere di un pazzo come Trump, ne minano le radici. E noi stiamo a guardare senza fare niente. Siamo troppo educati, lasciamo parlare personaggi orrendi. Non ci rendiamo conto dei semi del male che si stanno infiltrando».
Per chi avrebbe votato agli Oscar?
«Non vado più al cinema. L’ultimo visto è stato Titanic. Meglio i vecchi film che attingo da un mio baule dei tesori. Ho appena rivisto Novecento di Bertolucci. Magnifico».
Il suo Virgilio, Bruno Ganz, ci ha appena lasciati.
«L’ho conosciuto ai tempi de La Caduta, il film su Hitler. Ganz e Ben Gazzara sono i due geni del cinema con cui ho lavorato. Morti tutti e due».
Cosa sta progettando adesso?
«Il seguito di The Kingdom, la serie tv iniziata 25 anni fa. Nuovi episodi sempre sullo sfondo dell’ospedale dei fantasmi. Un horror surreale, mi sto divertendo molto».