La Stampa, 27 febbraio 2019
Intervista a Antonio Giovinazzi
«Dopo otto anni c’è di nuovo un pilota italiano titolare in Formula 1. E sono io». Antonio Giovinazzi oscilla tra l’orgoglio e la preoccupazione per la responsabilità. Difenderà i colori dell’Alfa Romeo motorizzata Ferrari e intanto si allena nell’unico modo possibile: guidando nei test. Ha appena finito la giornata con il quinto tempo. «Miglioriamo di giorno in giorno», spiega. È gentile, sorridente, garbato. Anche troppo: si fatica a immaginarlo, questo ragazzo di 25 anni, mentre prende a sportellate un rivale. Ma quando la visiera del casco si abbassa, esce il mister Hyde che è in ogni pilota.
Gli ultimi italiani in F1 erano stati Jarno Trulli e Tonio Liuzzi nel 2011. In pista c’era ancora Schumacher, Alonso guidava la Ferrari e Vettel la Red Bull, i motori facevano il rumore di un jet al decollo. È passata un’epoca. Per trovare l’ultimo campione del mondo bisogna risalire addirittura ad Alberto Ascari nel 1953.
Giovinazzi, qual è il suo primo obiettivo?
«Rendere i tifosi fieri di me. Serviva un pilota italiano, ora che ci sono due brand così importanti».
Qual è la prima difficoltà che ha incontrato?
«Non guidavo da tre mesi, riprendere è stato un po’ traumatico. Una cosa fondamentale è non sbagliare con i pulsanti e i manettini sul volante».
La Ferrari corre già veloce, mentre la Mercedes fa prove di durata: possibile che due top team lavorino in maniera così diversa?
«I test sono questi, ognuno ha il suo metodo. In questa seconda sessione cominceremo tutti a cercare un po’ il limite e al Gran Premio di Melbourne arriveremo nelle migliori condizioni».
Come va l’intesa con Raikkonen?
«Ci troviamo molto bene, lui per me è un maestro e un punto di riferimento».
Com’è il confronto dei tempi?
«Svolgiamo lavori diversi per migliorare più in fretta la macchina. È ancora difficile avere un paragone attendibile».
Sarà ancora un duello Ferrari-Mercedes?
«C’è stato un cambio di regolamento, però sì, saranno sempre gli stessi team davanti. Spero il meglio per la Ferrari».
Lei conosce bene Leclerc: come lo vede in coppia con Vettel?
«Mah, meglio chiederlo a lui. È andato sempre forte e si è meritato la Ferrari».
Quand’è scattata la sua passione per i motori?
«Avevo 3 anni, mio papà mi regalò un go-kart».
E lei a 3 anni si è messo a guidare?
«A dire la verità, appena papà ha messo in moto sono scappato piangendo dalla paura. Il giorno dopo sono tornato da lui e gli ho detto “dai, accendilo” e ho girato nel cortile di casa. Quando i miei me lo raccontavano non ci credevo, ma ci sono dei video che lo confermano!».
Chi ha avuto per primo fiducia in lei?
«Mio padre. Un bambino può fare poco se non viene supportato dalla famiglia. Se sono qui lo devo a lui».
C’è qualcuno invece che le consigliava di lasciar perdere?
«Sì, i miei professori. Saltavo molti giorni di scuola e allora mi dicevano: “Cosa corri a fare, in Formula 1 sono solo 20 da tutto il mondo, piuttosto prova con il calcio”. Per fortuna ho fatto di testa mia: non ero portato per il calcio».
In che ruolo giocava?
«Attaccante. Mi piace segnare».
Di chi aveva il poster?
«Sono cresciuto seguendo un pilota in tuta rossa su una macchina rossa che stravinceva: Michael Schumacher».
Il suo debutto in F1 in realtà risale al 2017: due gare non proprio positive.
«A Melbourne saltai le prove del venerdì, in Cina anche, e fu un week end negativo. Avevo deluso le aspettative di tanti e soprattutto di me stesso. Mi sono tirato su con il lavoro al simulatore della Ferrari. L’attesa è servita: ora ho la mia stagione ufficiale».