La Stampa, 27 febbraio 2019
Maria Grazia Chiuri, la ribelle di Dior
L’allestimento della sala al museo Rodin dice già tutto. Sulle pareti si rincorrono le lettere dell’alfabeto formate dalle foto di una donna nuda. Un’idea concepita negli Anni Settanta dall’artista Tomaso Binga, alias Bianca Menna, che scelse uno pseudonimo maschile per ridicolizzare i privilegi riservati agli uomini e partecipare alla Biennale. La signora, oggi ottantenne, è in platea. Si alza e legge una poesia femminista, poco prima che la sfilata cominci.
Dior cerca un nuovo linguaggio per celebrare il dna della maison. E per il prossimo inverno riparte dalle sottoculture degli Anni Cinquanta, con sfacciate teddy girl. Quelle che nel dopoguerra fumavano in pubblico, indossavano tenute maschili edoardiane, jeans e giubbotti chiodo. «Mi sono resa conto - osservando la mostra al Victoria & Albert di Londra dedicata alla storia del brand - che al di là degli stilisti che ci hanno lavorato, Dior ha codici ben precisi. Poco importa se la borsa Lady Dior l’ha disegnata Ferrè o un altro. Nell’immaginario collettivo è Dior e basta», spiega Maria Grazia Chiuri.
Viva la sorellanza
E dato che la rassegna al V&A sottolinea il legame tra l’Inghilterra e la griffe, ecco che lei indaga pescando nell’ estetica dei gruppi ribelli british. Così si formano sottili fil rouge fra ieri e oggi. Sull’onda delle emozioni. E della sorellanza. Sulle magliette, infatti, campeggiano le scritte: «Sisterhood is global», «Sisterhood is powerful» e «Sistehood is forever», che poi sono i titoli dei libri scritti dalla poetessa americana Robin Morgan. Per la serie abiti e politica vanno in tandem. D’altronde anche col guardaroba si rivendica uno stile di vita. «Perché quello che conta non è soltanto una silhouette, ma la capacità di dialogare con le donne. Non basta fare una bella collezione, deve racchiudere lo spirito del tempo», dice Chiuri, applaudita con foga dal pubblico.
L’unione fa la forza
Fra classicismo e ribellione si muove la creativa romana. Margaret d’Inghilterra vestita nel ‘51 con una spumeggiante toilette bianca di Dior e il blouson nero disegnato da Saint Laurent per la maison s’incontrano oggi. Nelle gonne a ruota plissettate, accompagnate da quel giubbotto chiodo rivisitato in cotone spalmato, pelle o vernice.
La giacca Bar è in versione light. Dialoga con sottili pantaloni scozzesi. I quadretti Vichy si dilatano sulle cappe-blazer. Le gonne midi, arricciate, sono serrate da cinture-bustier di cuoio. Mentre le giacche a marsupio a quadrettoni rossi e neri sono sfrangiate, di sapore grunge. Scarpe basse affusolate per sveltire il passo. E cloche. Sempre. «I cappelli mi piacciono da pazzi. Servono per definire la figura. Questi sono comodissimi, si arrotolano in tasca. Nascondono volutamente il volto delle modelle, protagonista deve essere l’abito».
Dettagli di lusso
Il vocabolario vestimentale di Chiuri riscrive anche la mitica Toile de Jouj con disegni di palme alla Schifano. Collane di perle e cuoio dark convivono. La dinamicità dello sportwear è data dal taglio, dai tessuti tecnici e dalle lane alleggerite.
Graffia con grande eleganza questa donna così attuale e sovversiva, eppure carica di dettagli lussuosi che rimandano alla storia delle conquiste femminili, care già a Christian Dior che fin dall’inizio la liberò da un guardaroba rigido. Il jeans non manca, è ombreggiato, stinto ad arte nelle pieghe plissettate delle sottane, nei pantaloni morbidi.
E’ coraggiosa Chiuri a sublimare il lavoro di una donna ottantenne come Binga. «Non mi pongo il problema dell’età. Se una cosa mi piace la faccio. Devo dire che in Dior mi assecondano sempre nelle mie avventure». La prossima sarà quella di sponsorizzare una mostra ai Frigoriferi Milanesi che si inaugura il 4 aprile. Darà voce a un centinaio di artiste sessantottine, ovviamente agè. Da Carla Accardi a Paola Mattioli, fino a Marina Abramovich. Quando la moda s’impegna non conosce limiti.