Mogol, perché questa proposta le piace?
«Perché difende la musica italiana.
In Francia lo fanno da anni mentre da noi non ci ha mai pensato nessuno, le radio possono trasmettere anche il 100% di musica internazionale e nessuno dice niente. Secondo me un minimo di protezione della nostra musica è giusto. Non abbiamo chiesto l’80% ma il 30%, in modo che sia presente in tutte le radio, mi pare una proposta moderata e assennata, anche perché non parliamo solo di canzoni nuove, ma anche di repertori come quelli di artisti del calibro di Battisti o Dalla, tanto per citarne due».
Ma non le dà fastidio che sia una proposta in sintonia con lo slogan "prima gli italiani"?
«Ma no, non è "prima gli italiani". Se fosse così avremmo chiesto il 60%, invece stiamo parlando del 30. Allora, a ragion di logica, stiamo dicendo "prima gli stranieri", con il 70% della programmazione…».
Però il sovranismo c’entra. È un provvedimento che trova terreno fertile anche perché c’è un ritorno del nazionalismo e la polemica sull’immigrazione è sempre più forte, persino a Sanremo...
«Quello a favore della musica italiana non è un discorso di attacco, ma di difesa. È lo stesso quando si parla di immigrazione, si è giunti a ridurre di molto gli sbarchi mentre prima si sbarcava solo in Italia. Non voglio difendere Salvini ma si è voluto correggere qualche cosa di distorto. E consideri che a me l’integrazione sta molto a cuore, ho anche presentato un progetto di integrazione dei migranti, con investimenti a fondo perduto e il coinvolgimento di aziende agricole, che non è nemmeno stato preso in considerazione dalla politica».
E la politica ha mai avuto a cuore la musica italiana, a suo avviso?
«No, non si è mai interessata, pensi alla legge sulla musica, da quanto tempo l’aspettiamo? Ecco perché quando arriva una decisione a protezione della musica io sono contento».
Non le sembra singolare che accada adesso?
«No, se ne parla da tempo, lo fece l’industria discografica nel 2016 e anche il ministro Dario Franceschini, nel 2017, parlò della possibilità di introdurre quote obbligatorie in favore della musica italiana».
Chi farebbe i controlli sulla programmazione delle radio?
«Le potrebbe controllare la Siae, che ha già gli strumenti per farlo».
E a chi non le rispetta cosa accadrebbe?
«Secondo me la legge dovrebbe prevedere delle sanzioni».
Cosa accadrebbe a una radio che, per esempio, trasmette solo rock?
«Il rock non è solamente inglese, canzoni che io ho scritto con Battisti come Il tempo di morire o Insieme a te sto bene sono assolutamente rock. Si può proteggere la musica italiana anche nel rock».
Ma non limiterebbe la libertà di un direttore di radio di trasmettere quello che vuole?
«So benissimo che ogni direttore ha il diritto di scegliere quello che è meglio, e infatti ci sono radio che trasmettono con successo solo musica italiana. Ma noi non stiamo parlando di una sopraffazione, ma della difesa della cultura italiana».
L’avvento della Rete ha cambiato il mondo, la musica passa da Internet e dagli smartphone. Come andrebbero considerati Spotify e YouTube? La regola del 30% varrebbe anche nelle playlist?
«Francamente non so cosa preveda la proposta di legge per Internet, onestamente non credo che sia stato chiarito. Ma credo che sia una regola valida non per tutte le emittenti, ma per i grandi network nazionali».
Lei sa bene che il mercato in Italia è fatto già oggi soprattutto di musica italiana, lo dicono le classifiche.
«Effettivamente se parliamo di volumi e non di qualità ha ragione, ma se parliamo di qualità non possiamo dire di essere andati verso l’alto. Dalla cultura popolare dipende l’evoluzione dei popoli e di sicuro in Italia tra gli anni 70 e 80 c’è stato un fiorire di musica popolare che non ha eguali. Adesso non è un momento in cui possiamo vantarci di queste eccellenze, allora io dico muoviamoci. Io l’ho sempre fatto, ho creato una scuola importante come il CET, sono andato a fare lezioni a Harvard e Berkeley, perché so quanto sia importante la musica popolare, ho fatto tutto quello che potevo. Continuerò a farlo» .