Come mai in Italia quella “scomunica” non c’è mai stata?
«Da voi il dibattito è più aperto. Tanto tempo fa mi avevano invitato alla Festa dell’Unità, l’anno scorso ero alla Fondazione Feltrinelli. A Parigi sarebbe impensabile. In Italia le persone restano meno intrappolate nel loro passato. Quando Gianfranco Fini ha detto che aveva chiuso con l’Msi e il fascismo tutti gli hanno creduto. È stato così anche per Salvini, che un tempo chiedeva la secessione, insultava i meridionali mentre adesso viene votato anche al Sud. Anche io sono cambiato».
Eppure a Parigi la considerano ancora come un intellettuale di estrema destra.
«L’estremismo mi fa orrore. Sono un conservatore di sinistra, mi batto per il reddito universale, credo nella decrescita, sono ferocemente contrario al liberalismo. Nei miei libri si nota l’influenza di Rousseau e Marx. Alle presidenziali ho votato per Jean-Luc Mélenchon».
E al ballottaggio?
«Avrei scelto chiunque contro l’iper-liberista Macron. Quindi ho votato Marine Le Pen ma non sono convinto che si possa definire di estrema destra. Houellebecq è uno scrittore di estrema destra?».
Per alcuni le sue idee lo sono.
«È una sciocchezza. Houellebecq è soprattutto un depresso che descrive una società depressa, quindi è perfettamente in sintonia con la nostra epoca».
La Nouvelle Droite, che lei ha creato mezzo secolo fa, era il tentativo di sdoganare idee estremiste?
«Non mi sono mai riconosciuto nell’etichetta inventata dai giornalisti. Il mio gruppo di riflessione si occupava piuttosto di una critica radicale della modernità, della distruzione delle solidarietà attraverso quel che Marx definiva "le acque gelide del calcolo egoista"».
Alcuni suoi amici la descrivono come il padre spirituale di Salvini.
È così?
«Ho incontrato Salvini una sola volta e francamente dubito che abbia mai letto i miei libri. Non mi riconosco nella Lega e neppure nei Cinque Stelle. Osservo da vicino questo governo perché l’Italia è un laboratorio del populismo».
I suoi libri sono popolari anche tra i militanti dell’alt right.
«Per carità, sono dei piccoli estremisti ridicoli. Si servono di me per costruirsi una credibilità. Mi interessa Trump, che forse vale più di quel che pensano i suoi oppositori. Negli Stati Uniti avrei votato Bernie Sanders. E oggi in Francia mi sento più vicino ai gilet gialli».
Non è preoccupato dalla violenza nel movimento e dagli insulti antisemiti contro Alain Finkielkraut?
«Gli aggressori di Finkielkraut non erano dei gilet gialli ma dei casseurs, professionisti del disordine che non rappresentano il movimento. Il ritorno dell’antisemitismo mi preoccupa, certo. Vorrei però ricordare che le vittime ebree degli ultimi anni sono state uccise da islamici radicali».
Con l’elezione di Macron si pensava che la Francia fosse al riparo dal populismo. Non è così?
«Alle ultime presidenziali sono crollati i partiti che costruivano la linea immaginaria tra destra-sinistra, aprendo così la strada al populismo, ovvero alla contrapposizione verticale popolo-élite».
La destra e la sinistra continuano a esistere. Vede Le Pen e Mélenchon come la stessa cosa?
«Molti gilet gialli sono elettori di Le Pen e Mélenchon. E alla fine l’unità politica tra queste due figure, impossibile al livello di partiti, si è creata nelle piazze. Il populismo è uno stile che si può combinare con le ideologie più diverse ed è per me un fenomeno di transizione. Solo adesso il Muro di Berlino è caduto nelle teste, siamo davvero usciti dal Novecento. L’incertezza di questa fase provoca disagio sociale, fenomeni come xenofobia e ricerca di capri espiatori attraverso l’immigrazione».
È quello su cui puntano i sovranisti, alimentando le paure.
«Nessuno osa più negare che ci sia un problema con l’immigrazione, anche Macron lo ammette ma si barcamena senza una linea chiara. Il dibattito è così accesso che si cade nell’estremismo. È un peccato. Bisognerebbe invece affrontare la situazione nella sua complessità culturale e religiosa. Come fare in concreto non saprei, per mia fortuna non faccio politica».
Una volta disse: “Dobbiamo prendere Gramsci alla sinistra”. Lei vuole vincere la battaglia culturale, prima ancora che politica?
«Gramsci aveva capito che i grandi cambiamenti iniziano nelle teste, nei valori, nei miti. Qualche anno fa ho visitato la sua casa in Sardegna. Non vorrei sembrare presuntuoso ma è vero che insieme ad altri avevamo previsto la progressiva scomparsa della classe media, la nuova miseria sociale. È quello che ha portato alla rivolta dei gilet gialli. Alla fine non credo che il movimento provocherà qualcosa di politicamente concreto ma è una sorta di ripetizione generale in vista di un cambio di regime, dell’avvento della Sesta Repubblica».