27 febbraio 2019
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Biografia di Frank Gehry
Frank Gehry (Frank Owen G., nato Frank Owen Golberg), nato a Toronto il 28 febbraio 1929 (90 anni). Architetto. «Ciò che gli altri sovente non vedono è che io non distruggo l’ordine. Lo reinvento. Distruggo l’ovvio, lo agito, lo capovolgo, lo rimesto, lo cuocio e friggo i suoi dogmi. In questo modo libero un nuovo ordine di forme dalle ceneri del vecchio» • «Quand’ero bambino, ogni giovedì andavo con mia nonna, Leah Caplan, al mercato ebraico di Toronto; compravamo una carpa viva e, a casa, la mettevamo nella vasca da bagno. Giocavo con il pesce tutto il giorno, sino a quando nonna lo uccideva per preparare il “gefilte fish”, il pesce cucinato nella nostra maniera tradizionale. Mia nonna era solita giocare con me: mi portava dei pezzi di legno e insieme costruivamo sul pavimento case e città. Molte di quelle forme, compresa quella della carpa che compravamo ogni giovedì al mercato, le uso ancora oggi. Giocando con mia nonna Leah avevamo già fatto tutto: forse ora sto solo reimpiegando e raffinando quanto ho fatto a 8 anni» • «Nato il 28 febbraio 1929 nella zona ebraica di Toronto, da un padre di origini polacche così come la madre (nata a Lodz, la stessa città dove è nato Daniel Libeskind). Il lavoro intermittente del padre Irving (fruttivendolo e gestore di slot machine) portò la famiglia Goldberg a barcamenarsi fra Toronto e la città mineraria di Timmins – dove Frank ebbe il primo approccio con l’hockey su ghiaccio e con l’antisemitismo –, fino a Los Angeles, dove si trasferiscono in un misero appartamento a causa dei problemi di salute del padre, tanto che sarà la madre Thelma a dover lavorare» (Manuel Orazi). «Da ragazzo, […] in Canada, […] i compagni di scuola lo insultavano chiamandolo “fish”, pesce. Secondo l’American Heritage Dictionary, si dà del “pesce” a chi manca di certe caratteristiche umane, e la caratteristica umana che mancava a Frank Goldberg era la fede in Gesù Cristo. Vita dura. “C’erano solo 30 famiglie ebree in città; il resto erano bianchi protestanti o cattolici, per lo più operai e contadini: venivamo sempre alle mani”, ha ricordato in un’intervista. […] In California, dove i genitori di Frank si erano trasferiti quando il figlio aveva diciassette anni, le cose andarono meglio. Non tanto, però, da fargli dimenticare il passato. E quando si sposò, e gli nacque il primo bambino, seppur renitente si lasciò convincere dalla moglie a cambiar nome: “Mi disse: vuoi che abbia gli stessi problemi che hai avuto tu?”. Fu così che Frank Goldberg diventò Frank Gehry» (Maria Giulia Minetti). «Gehry, dopo studi di ceramica e disegno, si iscrive alla facoltà di Architettura alla University of California, a Los Angeles, dove otterrà il diploma nel 1954» (Giovanni Damiani). «Per mantenersi agli studi di Architettura, guida un furgoncino e installa cucine a domicilio» (Michele Masneri). «Venne bocciato all’esame di prospettiva. Un professore lo invitò a cambiare facoltà. “Ma io archiviai l’incidente come persecuzione antisemita”» (Francesco Erbani). «Il giovane Gehry inizia a lavorare per diversi grandi studi commerciali, ma durante la sua gavetta segue un semestre a Harvard nel 1956 e, cinque anni più tardi, si reca a Parigi per frequentare gli ambienti artistici parigini, oltre che per lavorare da Remondet. Al suo rientro a Los Angeles aprirà il proprio studio con sede a Santa Monica, che dal 1967 prenderà il nome di Frank O. Gehry and Associates, tuttora in uso. Sino agli anni Settanta l’attività prevalente dello studio è costituita da progetti di case che rileggono con molta attenzione Frank Lloyd Wright, Craig Ellwood, Gordon Drake. […] I primi committenti importanti sono i coniugi Stevens, che gli affidano (1959) la realizzazione di una villa in cui Gehry lavora con un linguaggio wrightiano e crea spazialità giapponesi, elementi ripresi poi in quegli anni anche in Casa Marais e Miranda (1960), Casa Romm (1954) e negli uffici della Kay Jewelers (1965). Nel 1965 Gehry completa la Casa Danziger a Hollywood, dove possiamo leggere una sua nuova impostazione progettuale che parla un linguaggio più urbano, in cui il rapporto con la strada è molto più duro, fatto di volumi puri e grandi muri che racchiudono il complesso: elementi che diverranno una delle caratteristiche di molte sue opere successive. […] Un progetto di svolta è il centro commerciale Santa Monica Place (1971-1980), dove si cominciano a spezzare elementi e la geometria si fa irregolare e scomposta. Negli stessi anni Gehry costruisce una casa per se stesso che diviene il suo manifesto progettuale. Partendo da una preesistente tipica casetta di lottizzazione a Santa Monica, Gehry comincia a tagliarne la superficie e ad aggiungere nuovi elementi dalle geometrie non lineari» (Damiani). «Fu Berta [Berta Isabel Aguilera, la seconda moglie – ndr] a trovare la casa: era comoda, aveva un pezzetto di giardino e ce la potevamo permettere. Quando la comprammo, capii che avrei dovuto farci qualcosa prima di traslocarci. E mi affezionai subito all’idea di lasciarla intatta, di non manometterla. Era intorno alla vecchia costruzione che avrei realizzato il nuovo edificio. Volevo che le finestre si protendessero al di fuori del fabbricato». «Emblematica della poetica di Gehry è stata la decostruzione (materiale e non) della sua stessa casa, che, pubblicata nel 1980 sulla copertina di Progressive Architecture, gli ha dato la notorietà; usando i materiali poveri tipici del primo periodo della sua architettura (compensato marino, rete zincata, lamiera ondulata), Gehry ha trasformato il banale cottage appena acquistato attraverso un gioco complesso di compenetrazioni, disgiunzioni, sovrapposizioni, squarci, estrusioni che decostruiscono radicalmente la dialettica interno/esterno» (Claudio Roseti). «Mentre costruivo casa mia, portai a termine il Santa Monica Place, un centro commerciale. La sera dell’inaugurazione cenammo a casa con il presidente della società, un avvocato, che si guardò intorno e mi chiese: “Che diavolo ha fatto?”. E io: “Beh, mi sono divertito a sperimentare un po’”. E lui: […] “Se le piace questo, non può piacerle quello”, e punta il dito in direzione del Santa Monica Place. Al che, io rispondo: “Ha ragione, non mi piace”. E lui: “Allora perché l’ha fatto?”; e io: “Per guadagnarmi da vivere”. E lui: “Fa male, dovrebbe smettere”; e io: “Ha ragione”. In quel periodo nel mio studio c’erano 45 persone che lavoravano solo ai suoi progetti: con una stretta di mano decidemmo di fermare tutto. Ebbi l’inebriante sensazione di un salto nel vuoto, e, malgrado tutti i guai che ne derivarono, trovai la felicità». «Sono gli anni in cui Gehry comincia a collaborare con molti artisti, su tutti Claes Oldenburg, con cui realizzerà diversi progetti. Da queste collaborazioni Gehry trae rapporti spaziali complessi e l’uso sempre più sofisticato di materiali di recupero presi dall’immaginario americano. I progetti più significativi di questo passaggio sono Casa Spiller (1978), la Loyola Law School (1979-1984) e la Casa Norton del 1982, che vengono inframezzati dalla partecipazione alla Biennale del 1980, curata da Paolo Portoghesi, con una installazione per la Strada Novissima. […] Con la fama crescente aumentano le dimensioni dei progetti: è del 1982-1984 il museo aerospaziale a Los Angeles, che raccoglie in sé molte tematiche progettuali di Gehry, dai rivestimenti alla scomposizione dello spazio sino al lavoro con i materiali e i miti della California, in questo caso rappresentati dalla corsa aerospaziale e dalle fabbriche di aeroplani (appeso in facciata vi è un modello di F-104). Negli anni Ottanta i progetti continuano a moltiplicarsi con richieste di grandi opere ed edifici complessi, occasione per inaugurare nuove tematiche progettuali. Nel 1983 realizza una installazione per il gallerista Leo Castelli in cui compare la prima forma di pesce, una figura che verrà reiterata con grande frequenza e a tutte le scale, dalle lampade a interi edifici, come nel caso del Fish Dance Restaurant a Kobe (1986) o della copertura realizzata a Barcellona nel 1992» (Damiani). «“Cominciai quasi per caso – ricorda – con un pesce di legno lungo dieci metri che realizzai, su sollecitazione di Germano Celant, per uno show del Gruppo finanziario tessile. Il pesce era molto kitsch, […] ma offriva un aspetto dinamico, un po’ come le statue indiane di Shiva, le cui braccia di bronzo sembrano in costante movimento”. Gehry cercò di rendere più astratta la forma di quel pesce. Gli mozzò la testa, le pinne, la coda, e si ritrovò con il prototipo di un "linguaggio" architettonico nuovo, tutto suo, ispirato dalla scultura barocca e dalla musica classica. Un "linguaggio" che gli permise di firmare edifici leggiadri, fluttuanti, a dispetto delle forme scultoree e della "pelle" in acciaio inossidabile. È questo stesso "linguaggio", adattato ai tempi e ai luoghi, ai materiali usati e alle esigenze del cliente, che si ritrova nelle opere più celebri di Gehry» (Arturo Zampaglione). «Gli spazi si fanno sempre più complessi e deformati, e nello stesso tempo compaiono sempre più forme prese dall’immaginario pop, come il grande barattolo del latte che troneggia sotto forma di edificio nel progetto per il campo estivo Good Times a Malibu (1984) o il grande binocolo per la Chiat/Day a Venice (1985-1991)» (Damiani). «Nel 1985 partecipa alla Biennale di Parigi e di Venezia, espone alla Triennale di Milano nel 1988 […] e nel 1989 riceve il Pritzker Architecture Prize, il massimo riconoscimento per l’opera di un architetto. Le forme che caratterizzano le sue opere sono via via più complesse e sempre meno euclidee: parallelepipedi sospesi nel vuoto, forme spigolose, strutture angolari, geometrie che sembrano sfidare la forza di gravità, volumi che si curvano "pericolosamente"» (Nico Zardo). «Il successo lo porta a progettare ovunque, costringendolo a confrontarsi con realtà differenti. […] L’incarico per il museo della Vitra, in Germania, è del 1987 (l’anno successivo, per la stessa Vitra lavorerà per la sede operativa in Svizzera). Nel 1988 lavorerà in Francia per Eurodisney (per la Disney l’anno prima progetta la sede americana di Anaheim, che terminerà nel 1995) e per la costruzione dell’American Center nel centro di Parigi. Le forme e il lavoro di scomposizione spaziale sono analoghi ai progetti californiani, mentre i materiali sono spesso diversi e meno precari e anche i sistemi costruttivi meno a vista. Gehry viene invitato nel 1994 alla mostra del Moma sul decostruttivismo; negli stessi anni viene incaricato della progettazione, tra l’altro, della nuova sala da concerti della Disney a Los Angeles e degli edifici per uffici di Praga universalmente chiamati Ginger e Fred per il loro sinuoso avvinghiarsi, come in una danza. È del 1991 il progetto per la nuova sede del museo Guggenheim a Bilbao che terminerà nel 1997 e che gli darà una fama planetaria. Il gigantesco museo, completamente rivestito di placche di titanio, diviene l’icona dell’architettura che si propone al nuovo millennio. Gehry a Bilbao tocca lo spirito del tempo materializzando in un edificio l’esplosione delle forme costruttive e il trionfo delle nuove tecnologie legate alla progettazione assistita dal computer, in una icona della cultura contemporanea e della comunicazione che assume una scala ormai globale. Dal trionfo mediatico del Guggenheim, Gehry saprà trarre solide basi per una lunga serie di progetti in tutto il mondo che, sebbene capaci di manifestare tutto il suo talento, tendono a essere sofisticate variazioni su quel tema» (Damiani). «Simile a una grande nave ancorata alla riva del fiume Nervión, il suo museo dai muri curvi ricoperti di titanio luminescente (leggero e prezioso, resistente e inossidabile, era subito apparso a Gehry il rivestimento ideale, ma sembrava dovesse rinunciarci per il costo eccessivo: poi, colpo di fortuna, la Russia a corto di valuta decise di immetterne sul mercato una forte quantità scontata), simile a una nave su cui sbocci un gran fiore – o forse uno spruzzo di panna, come quello che decora i coni gelati: il paragone è di Gehry stesso –, il museo attira l’attenzione di chiunque arrivi in città come un ineludibile magnete» (Minetti). «L’intervento, nel 1997, del Guggenheim Museum di Bilbao […] ha funzionato come un bengala per la sua notorietà. Occupando 28 mila metri quadri di spazio con il suo celebre fiore di titanio e trasformando l’anonima cittadina industriale basca in una meta del turismo di massa, Gehry ha raccolto, tempo un anno, cento richieste da città che sognavano un rilancio veicolato da un’architettura spettacolare firmata da uno stilista del paesaggio capace di trattare i materiali edili come tessuti da tagliare, cucire e, come dice lui, “imbastire di plissé”» (Chiara Gatti). «Srotola nastri colorati e lucenti nelle campagne, accartoccia e piega edifici che si annodano accanto ai vecchi stabili ottocenteschi, sgretola la forma come se fosse plastilina reinventandola a nuova vita, adagia gigantesche balene collodiane in piazze di cemento. […] Tutti lo vogliono, e lui sta disseminando per il mondo queste sue creature fatate» (Clotilde Veltri). «Le sue forme coniche si moltiplicano per il globo. […] Viene adorato, odiato, denunciato per parcelle pazze e infiltrazioni. Los Angeles, con una decina di suoi progetti, […] è ormai una specie di parco a tema gehriano. […] Oggi Gehry si gode la vita andando in barca a vela e inaugurando gli ultimi grandi progetti come il museo di Abu Dhabi o quello Louis Vuitton al Bois de Boulogne di Parigi» (Masneri) • «Da sempre, parallelamente all’architettura, Gehry ha anche sperimentato la scultura e l’arredamento estrapolando forme originali da materiali inusuali: "Easy Edges" (’69-’73) ed "Experimental Edges" (’79-’82), sedie e tavoli intagliati da blocchi di cartone ondulato, e la serie di mobili Knoll in legno sagomato; […] le "Fish Lamps", lampade, ma soprattutto sculture, ispirate alla forma di un pesce, a cui l’architetto lavora da vent’anni» (Linda De Sanctis) • Quattro figli: due femmine dalla prima moglie, due maschi dalla seconda e attuale consorte • Grande passione per l’hockey su ghiaccio • «“Tutto il lavoro comincia dai miei schizzi. […] Per molti architetti”, osserva Gehry, “i disegni iniziali sono molto meglio del risultato finale, perché non riescono a trasferire la bellezza estetica del progetto nella concretezza dell’edificio. Io invece ragiono in modo diverso, prendendo esempio da Aldo Rossi, che riuscì sempre a tradurre fedelmente la sua passione artistica. Penso in termini di completamento tridimensionale dell’opera. I bozzetti sono solo l’avvio di un processo, il punto di partenza di una dinamica delle idee, che si arricchisce con strumenti filosofici e con il dialogo con i miei collaboratori”. […] Come nella fucina di Vulcano (e come racconta Sydney Pollack nel documentario […] Sketches of Frank Gehry), lo schizzo viene riproposto prima in un plastico dalle forme rozze, stilizzate. “È molto utile giocare con i blocchi di legno”, spiega Gehry con un sorriso. “Ci aiutano a capire la relazione del nuovo edificio con l’ambiente circostante e a valutarne l’ impatto volumetrico”. Dopo discussioni e perfezionamenti, manipolazioni tattili e impuntature, altri due o tre plastici cercano di far combaciare creatività e realtà. Grazie all’intervento dei computer, arrivano poi le verifiche su costi e materiali» (Zampaglione) • «Sono cresciuto come architetto nel modernismo nel dopoguerra. Allora la regola era costruire edifici che fossero semplici, modesti, economici. Dovevamo vivere confortevolmente, ma non in palazzi o castelli. Poi il movimento modernista si è spinto troppo lontano. Culturalmente era stato importante, ma la trasformazione in opere dello stimolo intellettuale che pure comportava esitò in architetture nude, in fredde scatole di cristallo che resero un po’ disumane le città. Si capisce quindi la reazione del postmodernismo, la marcia indietro di Robert Venturi o di Aldo Rossi. Ma il loro modo era ristabilire le figure e le forme del passato, e per me questo è impossibile. Ci ho anche provato, ma ero troppo addestrato nella scuola razionalista per accettare la svolta. Le grandi realizzazioni del postmodernismo sono antropomorfiche. Allora mi sono detto: visto che dobbiamo tornare al passato, perché non spingerci ancora più indietro, per esempio al pesce, che è comparso sulla Terra molto prima dell’uomo? Ero veramente irritato dai postmoderni, e ho cominciato a disegnare pesci. Senza un preciso intento, scoprendo che li amavo, che davano quel senso del movimento presente nelle sculture di Fidia o in certe figure indiane. O in Bernini, un maestro nell’introdurre il movimento nel marmo. Le pieghe sono una grande risorsa in questo senso: quelle nel braccio della madre che accolgono con calore il bambino o le pieghe delle vesti. Ho studiato molto le pieghe, e ho cominciato a vederle come sostituto della decorazione, come il modo di esprimere emozioni in un edificio. […] È incredibile: puoi prendere una facciata, curvarla un poco, ed ecco che animi tutto l’edificio» (a Giovanni Maria Pace) • «L’architettura di Frank Gehry […] non ha avuto vita facile. Solo dopo il grande successo ottenuto con il Museo Guggenheim di Bilbao quelle forme un po’ sghembe che non assomigliano a nulla di visto prima sono state accettate (non da tutti) e ammirate. Il segreto della loro originalità sta molto nella capacità di chi le ha concepite, nella sua storia e nella sua formazione. Le passioni giovanili per Alvar Aalto, grande maestro dell’architettura organica, l’ammirazione per le opere di architetti innovatori come Charles Eames, Raphael Soriano, Richard Neutra, l’amichevole frequentazione, nella California degli anni Sessanta, di artisti come Claes Oldenburg, Richard Serra, il particolare piacere per i materiali poveri (la rete metallica, il cartone, il legno compensato, la lamiera grecata…). E, per sua stessa riconoscente ammissione, molto è dovuto al suo psicanalista, che l’ha aiutato a esprimersi in maniera più libera. […] Gehry, pur essendo, inevitabilmente, figlio del razionalismo moderno, ha saputo esprimere un’architettura squisitamente personale, decisamente innovativa, molto più vicina all’opera di un artista che segue un’intuizione personale e profonda» (Zardo). «Bruno Zevi lo ha paragonato al Borromini, il grande architetto barocco. […] Anche Francesco Dal Co […] gli riconosce d’aver compreso “la possibilità di occupare con l’architettura gli spazi che l’arte non riesce più a dominare e di demandare al progetto architettonico il compito di portare alle estreme conseguenze gli esperimenti avviati dalle avanguardie storiche”. Siamo davanti a un ribaltamento di prospettive, una rivoluzione: all’opera “viene assegnato il compito di proporsi al confronto non già con un pubblico di utenti, ma con un pubblico di spettatori”. L’architettura viene invasa dall’arte, o diventa spettacolo. Inaugura un nuovo mondo. O forse rinuncia al suo ruolo, sbagliando. Questa almeno è la diagnosi che fa un progettista severo come Giancarlo De Carlo: “Il problema non è tanto Gehry, quanto i suoi imitatori. Io sono molto allarmato all’idea che si faranno sempre più architetture, diciamo così, un po’ sbilenche, ma tutte omogeneizziate, senza legami col luogo. Il museo di Bilbao potrebbe sorgere in qualsiasi angolo del mondo. L’architetto dovrebbe dare un contributo alla resistenza contro l’omologazione, alla memoria. Il disastro sarà quando tutti faranno così; saremo usciti dalla cretineria del postmoderno per cascare nell’omogeneizzazione generale”» (Mario Baudino) • «Secondo la Treccani, “archistar” è un “architetto molto famoso, conscio di essere, come i divi dello spettacolo, al centro dell’attenzione pubblica per la sua capacità di far discutere e di sorprendere con i propri progetti e le proprie opere”. […] Re delle archistar, colui che ha seminato nel mondo i suoi Guggenheim tra le lamiere contorte: Frank Gehry. […] L’Economist calcolò un “effetto Bilbao”, cioè un moltiplicatore keynesiano per cui, quanto più era strambo e attraente il mammozzone, più i turisti sarebbero arrivati» (Masneri). «Sono cresciuto prendendo come modello le archistar del mio tempo: si chiamavano Le Corbusier, Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright. Quello che sono oggi, lo devo anche a loro» • «Il grande pubblico mi vede come quello che accartoccia i fogli di carta per fare un progetto [come in una nota puntata dei Simpson in cui è comparso – ndr], e questo mi diverte, ma fino a un certo punto. […] Sono stato invitato a un importante talk show televisivo, e il conduttore mi ha chiesto di raccontare quale fosse il mio processo creativo per sviluppare un edificio dopo aver accartocciato dei fogli. Gli ho chiesto di ricominciare l’intervista» (a Benedetto Camerana) • «Quando inizi la carriera di architetto, persegui un’impossibile perfezione, e passi tutta la vita vagheggiando un edificio ideale che sarebbe bellissimo costruire, il punto d’arrivo di tutta una carriera: poi maturi e ti rendi conto che non ci arrivi mai, perché non c’è punto d’arrivo». «La mia architettura tenta di smitizzare il problema del dettaglio. Ho combattuto a lungo con questa questione. Peter Schjeldahl ha scritto a questo proposito una frase che voglio venga incisa sulla mia tomba: "Fare propaganda per la perfezione è alla base dell’amore di Gehry per l’imperfezione dell’umanità". […] Anch’io dedico molto tempo ai particolari, ma lo faccio in maniera informale, e i risultati che ottengo sono più casuali. Anche per questo, probabilmente, tutto quello che faccio fuoriesce dai programmi, dai budget, dalle previsioni e dalle attese dei committenti». «La sola ragione per costruire edifici più espressivi è umanizzarli. Le monotone scatole di vetro sono fredde e non sono ospitali. Per cui cerco di cambiare proprio questo». «Mi sento colpevole se non sperimento formo nuove, materiali nuovi. È il senso di colpa ebreo che mi porto dentro» (a Fiamma Arditi) • «Non traccio un confine netto tra la pittura, la scultura e l’architettura. In architettura ci sono elementi come i dipartimenti per l’edilizia, la suddivisione delle aree, i preventivi, i contesti e cose di questo genere. Ma alla fine, quando tutto è stato detto e tutto è stato fatto, ti trovi di fronte alla musica di te stesso». «Voleva fare il chitarrista. Aveva anche preso lezioni di musica, ma le dodici ore al giorno di pratica architettonica hanno preso il sopravvento. Ogni tanto qualche sua costruzione ti fa venire in mente un pentagramma sconnesso, ma se la guardi attentamente ha una sua coerenza, una sua eleganza, una sua necessità d’essere» (Claudio Castellacci) • «Sgusciante come il suo pesce, aperta come le sue costruzioni spoglie, e tanto sperimentale quanto le attività artistiche che sono state la sua ispirazione, l’architettura di Frank Gehry rappresenta il vero modello moderno per un’architettura “oltre il costruire» (Aaron Betsky) • «Certo, anche nella carriera stellare di Gehry ci sono stati – e ci sono – momenti difficili: tra questi, la sconfitta nella gara per il grattacielo del New York Times a Manhattan, vinta da Renzo Piano. E Gehry rimpiange di non essere mai riuscito – nonostante l’amore per il Paese del Bernini, l’ammirazione per Aldo Rossi e i pour parler a Modena e per l’aeroporto di Venezia – a realizzare un’opera in Italia. “Ma non bisogna farsi ossessionare da queste delusioni”, dice. “L’importante è fare il lavoro con passione, come Aldo Rossi, e pensare al futuro”. E lei ci pensa?, chiediamo a bruciapelo. “Io sì. […] E lo sa, qual è il mio sogno segreto e impossibile? Costruire un museo sulla Luna”» (Zampaglione).