il Giornale, 26 febbraio 2019
Biografia di Lupo Rattazzi raccontata da lui stesso
«È dalle ultime elezioni che ci penso. Qualche cosa bisogna fare: non voglio che i miei figli, i miei nipoti crescano nel Paese che vorrebbe Di Battista, tipo quelli che va a visitare nei suoi viaggi in America Latina e che pensa di imitare in Italia». Nella sua bella casa milanese Lupo Rattazzi non perde mai l’aplomb, ma nella voce si avverte un filo di trattenuta indignazione. «Preoccupazione di sicuro. Ho vissuto in tanti Paesi, ma l’amore per l’Italia resta più forte di tutto. E mi dispiace vederla nelle mani dei personaggi che si esibiscono tutti i giorni in tv».
Dalla primavera scorsa, il figlio di Susanna Agnelli, 66 anni, presidente di Neos, la compagnia aerea del gruppo Alpitour, marca stretto il governo. Lo fa a modo suo: in maggio ha comprato le pagine di alcuni quotidiani per pubblicare una lettera aperta ai partiti di maggioranza. Nelle scorse settimane si è ripetuto: un’altra pagina, un altro messaggio, questa volta al solo Salvini.
Come mai tanta attenzione per la politica?
«Ho pensato di dare voce a chi lavora nel mondo dell’economia. A maggio c’era il terrore dell’uscita dall’euro e chiedevo ai due partner della coalizione se avevano pensato di informare i loro elettori delle conseguenze di una possibile Italexit. A essere colpite sarebbero state soprattutto le fasce più deboli della popolazione, visto che i ricchi hanno tutti gli strumenti informativi e operativi per fare fronte alla situazione e cavarsela».
L’ultima volta, però, si è rivolto solo a Salvini.
«Da maggio a oggi la maggior parte degli italiani ha consolidato il proprio orientamento a favore dell’euro e il tema Italexit non sembra più di attualità. Ora il quadro economico è più fosco, ma c’è anche più chiarezza. Lo si vede in molte cose: la Lega resta l’espressione di un mondo vicino agli imprenditori, alle forze produttive, alla parte migliore del Paese. La stessa cosa non si può dire dei Cinque Stelle. Così ho chiesto a Salvini di staccare al più presto la spina a questo governo. Soprattutto dopo i due episodi più recenti che hanno visto i grillini protagonisti».
E cioè?
«Il mancato riconoscimento di Guaidó in Venezuela e la visita di quelli che io chiamo i due screanzati, intendo Di Maio e Di Battista, ai gilet jaunes francesi. Come se un vice-premier d’Oltralpe venisse in Italia e incontrasse i Black bloc incoraggiandoli a sovvertire il governo. Una vergogna, una macchia nera che rimarrà. Per questo dico che bisogna distinguere Lega e Cinque Stelle: Salvini ha a volte degli atteggiamenti che non condivido, ma penso che debba consolidare la sua leadership, anche con nuove elezioni, e compiere il percorso da uomo delle felpe a uomo di Stato».
Lei, però, è europeista. Salvini non si capisce: ha nominato presidenti di due commissioni parlamentari importanti Alberto Bagnai e Claudio Borghi. Pro-euro non sono di sicuro.
«È vero e i due mi preoccupano non poco. Vedere Borghi che twitta e scherza, quasi fosse un gioco, con i mercati e l’euro mi inquieta. Lo stesso quando vedo altri personaggi che vanno in televisione e dicono con tutta leggerezza che fosse per loro il deficit potrebbe salire al 5/6%. Anche per questo non so proprio chi voterò alle prossime elezioni».
In casa sua c’era qualcun altro che aveva la passione per la politica: sua madre.
«Mia madre ha fatto politica con grande impegno e sacrificio. Per 10 anni, tra il 1974 e il 1984, è stata sindaco dell’Argentario ed è forse questa l’esperienza più importante che in qualche modo l’ha cambiata. Sotto certi aspetti ho seguito le sue orme visto che anch’io all’Argentario sono stato consigliere comunale. E anch’io cerco di fare qualche cosa. I tempi sono però diversi rispetto ad allora».
Oggi le élite sono la causa di tutti i mali e lei all’élite indiscutibilmente appartiene.
«Naturalmente, contro quelli che hanno la mia storia si può dire di tutto. Resta il fatto che io le conseguenze della svalutazione, dell’instabilità valutaria le ho viste. Mi ricordo nel 1992, quando la perdita di valore della lira rischiò di mettere in ginocchio la compagnia aerea che avevo fondato, Air Europe: fummo costretti a ridurre le ore di lavoro dei dipendenti con i contratti di solidarietà. Non solo: conosco bene l’Argentina del caos valutario, ci ho vissuto. E proprio in Argentina ho visto i ricchi diventare ancora più ricchi, e i poveri diventare un esercito».
Come mai ha vissuto in Argentina?
«Nel 1948 mio padre e mia madre decisero di trasferirsi là. E in Argentina abita ancora mio fratello Cristiano con i figli. Anzi c’è proprio un episodio che riguarda i miei nipoti che ho già raccontato e che mi ha colpito molto. Era poco dopo il default del 2001, sono arrivati all’aeroporto di New York e hanno preso un taxi. Quando l’autista ha scoperto che erano argentini li ha lasciati in mezzo alla strada: aveva investito quello che aveva in bond di Buenos Aires e aveva perso tutto».
Lei in questo governo qualcuno l’ha frequentato, conosceva bene il ministro degli Affari europei in uscita, Paolo Savona...
«Sì, è stato lui a darmi il mio primo lavoro, era il 1977. Avevo fatto l’Università negli Stati Uniti e Savona, che in quel momento era direttore generale di Confindustria, sotto Guido Carli che era il presidente, mi assunse all’Ufficio Studi. In quel momento, tra l’altro, Savona era la perfetta espressione dell’ortodossia europeista e liberale».
Come spiega il suo percorso?
«Non me lo spiego proprio, non ci riesco. Anzi, vedere che presta il suo nome e la sua figura a un certo tipo di filosofia, mi addolora molto».
Ha citato Guido Carli, che è considerato il teorizzatore del cosiddetto «vincolo esterno», l’ancoraggio all’Europa come correttivo alle cattive abitudini fiscali del nostro Paese...
«Lo considero il mio mentore, è un uomo che ha avuto grandi meriti. Parlavamo di Argentina: tra i due Paesi vedo enormi similitudini e per me l’Argentina è proprio una specie di Italia senza vincolo esterno. Banca Centrale e Tesoro hanno fatto di tutto con la conseguenza di mandare in dissesto il Paese. Quanto a Carli ho avuto modo di frequentarlo molto, era di un livello incredibile. A lui mi legano tanti ricordi».
Per esempio?
«Una volta era stato convocato per un’audizione dalla Commissione Finanze del Senato Usa. Io ero già là e mi chiese di accompagnarlo. Ricordo che il presidente della commissione Richard Lugar, una figura di primo piano della politica americana, lo presentò dicendo: abbiamo la fortuna di avere con noi uno dei più grandi statisti dell’economia e della politica mondiale».
La sua famiglia è un pezzo di storia d’Italia. E nei giorni scorsi, con la morte di Marella Agnelli, è sembrata davvero chiudersi un’epoca.
«Era la mia madrina di battesimo. E le confesso che l’espressione è finita un’epoca non mi è mai piaciuta. Posso dirle che le volevamo tutti bene. E che ricordo la dignità e la compostezza con cui affrontò la tragedia della morte del figlio».
E quando pensa al vostro rapporto con Fiat che cosa le viene in mente?
«Del periodo più recente mi è rimasto il grande orgoglio di aver partecipato a un turnaround unico al mondo. Nel 2003 eravamo finiti e siamo rinati, grazie a una persona straordinaria come Sergio Marchionne».
Lo conosceva prima che arrivasse a Torino?
«Non sapevo chi fosse. Sul letto di morte mio zio Umberto disse a Gianluigi Gabetti e John Elkann che la persona giusta per guidare l’azienda era lui. Un’intuizione che si è rivelata geniale».
Lei ha scritto un post su Facebook nei giorni della morte in cui lo chiamava Mago.
«Era il nomignolo che gli avevo dato. Marchionne era una persona speciale, con una carica umana straordinaria, talvolta anche di grande durezza, ma soprattutto spiritoso e arguto. È stato protagonista di un qualche cosa che solo i grandissimi leader possono realizzare. E solo lui avrebbe potuto farlo: si sdoppiava quasi, era in grado di vivere due culture diverse, quella americana e quella italiana».
La Fiat lei l’ha vista sempre da azionista. Di cose ne ha fatte, ma non a Torino. E la prima voce del suo corso di studi è un po’ particolare.
«Intende il Collegio Navale? Negli anni del liceo i miei pensavano che avessi bisogno di un po’ di disciplina, così mi mandarono al Morosini di Venezia. Non che fossi uno scavezzacollo, ma con il senno di poi mi ha fatto bene. Erano gli anni tra il 1968 e il 1971, ricordo il contrasto tra la disciplina del collegio militare e quello che succedeva nell’Italia di allora».
Poi?
«Poi gli studi in America, prima alla Columbia e poi ad Harvard, alla Kennedy School of Government. Di seguito un anno di Confindustria e tre a Wall Street, in due banche d’affari».
Di che cosa si occupava?
«Facevamo consulenza ai governi del Terzo mondo. Ci occupavamo di gestione del debito pubblico, di riserve valutarie, della Banca centrale. Io ho seguito a lungo la situazione dello Zaire, che oggi si chiama Repubblica democratica del Congo. Tanti viaggi e non ho visto nulla: si arrivava in aeroporto e poi si faceva la spola tra gli uffici governativi e l’albergo».
Poi però ha sempre lavorato nel campo del trasporto aereo, il suo nome è legato alla nascita di Air Europe.
«Alla fine degli anni Ottanta mi chiamò Air Europe inglese per creare una società italiana. E alla fine ce la facemmo: il 74% era dei britannici il 23% di Alpitour il 2% della Fiat, era stato Cesare Romiti a decidere di partecipare. Io e un altro socio, Giuseppe Gentile, avevamo l’1%».
Ma perché chiamarono proprio lei?
«Perché sapevano che del settore mi sono sempre occupato. Sono pilota, con 2.400 ore di volo alle spalle, e già allora ero nel consiglio di amministrazione di Enav, la società che si occupa di gestione del traffico. A dirla tutta credo di aver pilotato per la prima volta un aereo a sei o sette anni».
Come è possibile?
«Era il periodo in cui stavamo in Argentina. Vivevamo a Balcarce, la città natale di Manuel Fangio, a 400 chilometri da Buenos Aires, e nei grandi spazi argentini l’aereo è come l’automobile. Io ero in volo con il pilota e stavo leggendo un giornale a fumetti, mi ricordo ancora che era Bugs Bunny. Mi chiese di fare cambio con la cloche: lui prese il giornalino, io i comandi. Perdemmo mille piedi di quota, ballammo un po’, ma da allora la passione non mi è mai passata».
Ad Air Europe che cosa è successo?
«Praticamente subito, nel 1991, Air Europe inglese fallì. Io e altri due soci, oltre a Gentile c’era anche Antonello Isabella, ci facemmo dare i soldi da una banca e comprammo le quote dal curatore fallimentare. Poi ci fu l’ingresso di Swissair. Solo che alla lunga la partnership fra tre persone fisiche e un colosso era destinata a non funzionare: vendemmo al gruppo Volare».
Tra le sue attività c’è una società finanziaria, GL, che sta per Giovanni e Lupo. Lupo è ovviamente lei. Giovanni è Malagò, il presidente del Coni. Siete soci al 50% e amici da sempre. Come l’ha conosciuto?
«Sono cresciuto a Roma. E crescendo da quelle parti in certi ambienti è praticamente impossibile non conoscerlo, tanto è straripante la sua simpatia. Abitavamo nella villa sul Gianicolo dove mia nonna aveva ospitato le trattative tra il comandante delle SS Wolf e le gerarchie vaticane per favorire la liberazione di Roma. Poi la casa passò a mia madre. E io amo talmente la città che per un certo periodo, lo confesso, ho tradito la Juventus per la Roma».