La Stampa, 26 febbraio 2019
Tremila geni misteriosi per capire perché invecchiamo
Nel nostro Dna restano misteriosi molti geni: si tratta di quelli che «codificano» per proteine e, quindi, contengono le istruzioni per sintetizzarle. Sono, all’incirca, 3 mila su oltre 21 mila. Significa che le corrispondenti proteine hanno una funzione sconosciuta ed è probabile che molte abbiano un ruolo nei processi dell’invecchiamento e quindi in futuro potrebbero rivelarsi importanti: per la comprensione e il trattamento delle malattie neurodegenerative. Prima di tutto le demenze.
A spiegare queste ricerche a «TuttoSalute» è Valerie Wood della University of Cambridge, in Gran Bretagna: in uno studio su «Open Biology» ha catalogato i geni noti e quelli ignoti in diversi organismi, tra cui alcune specie di lievito (per esempio il lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae, molto usato nei laboratori) e l’essere umano.
Il primo decennio di analisi sul sequenziamento del genoma - spiega Wood - ha condotto a un’esplosione di dati. Più di recente, tuttavia, gli studi hanno rallentato il passo, lasciando fino a un 20% di proteine (anche in modelli animali molto studiati, come il lievito, appunto) senza un ruolo. La stessa proporzione vale per i geni codificanti proteine del Dna umano.
Di alcune di queste proteine si conosce la «famiglia» (appartengono, per esempio, a specifiche classi di enzimi). Un quarto, inoltre, è di origine antichissima: sono state individuate in animali tra loro distanti dal punto di vista evolutivo e l’ipotesi è che contribuiscano a regolamentare processi fondamentali per tutti gli organismi. «L’idea è che si tratti di proteine importanti - ribadisce Wood - anche se molte possono essere eliminate nei modelli animali, senza che ciò ne causi la morte».
Significa che sono in gioco processi più «sotterranei», per quanto fondamentali. Uno - aggiunge Wood - è l’invecchiamento e, quindi, il mantenimento dell’equilibrio cellulare e lo smaltimento di sottoprodotti tossici del metabolismo. Non è un caso che le cellule cosiddette «senescenti» abbiano un ruolo in molte malattie degenerative, tra cui l’Alzheimer, così come i difetti nei sistemi di smaltimento delle tossine.
Anche altri processi patologici potrebbero essere spiegati da alcune di queste proteine. «Per esempio - aggiunge Wood - la “Ammecr1”, presente anche nel lievito, è implicata nella sindrome di Alport, rara malattia che colpisce reni e udito. E un altro gene umano che ha il corrispettivo nel lievito, “C1orf35”, fa parte di quelli implicati del cancro, ma non sappiamo quale sia la sua funzione esatta». Ecco perché - sottolinea - è probabile che alcune di queste proteine contribuiranno a fare luce su tante malattie. «Sono in corso iniziative per esplorare le “librerie” di molecole così da riposizionare vecchie medicine - rileva - e utilizzarle su nuovi bersagli».
La sfida è impegnativa. «Ci sono tante ragioni per il buco nero: non abbiamo realizzato gli studi nelle condizioni ideali o, forse, ci mancano le tecnologie. Ci sono anche ragioni sociopolitiche - conclude Wood -: i finanziatori hanno spesso timore di investire su ricerche innovative che potrebbero richiedere anni senza risultati nell’immediato».