La Stampa, 26 febbraio 2019
Intervista a Giovanni Bazoli
Suo nonno fu tra i fondatori del Partito popolare, con Luigi Sturzo. Suo padre rappresentò la Democrazia Cristiana nell’Assemblea Costituente. Lui ha interpretato i valori famigliari, oltre che come avvocato e docente universitario, nella finanza, dal Nuovo Banco Ambrosiano, che ha riscattato l’oscura e drammatica stagione di Roberto Calvi, fino alla creazione di Intesa Sanpaolo, di cui è attualmente presidente emerito. A risaltare, nel pantheon di Giovanni Bazoli, bresciano, la linea lombarda: Montini-Paolo VI, Alessandro Manzoni e il gesuita torinese diventato arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, come divisa il dubbio, l’interrogazione, la ruminazione (termine biblico) che non è un limite, ma una continua occasione di rinnovamento.
Un secolo fa nasceva il Partito popolare. Una storia che si intreccia con quella della sua famiglia.
«La mia è una famiglia di avvocati, che all’esercizio della professione forense - nello studio fondato da mio nonno Luigi - hanno sempre affiancato un impegno pubblico, politico o amministrativo. Da questo punto di vista io ho rappresentato un’eccezione, essendomi dedicato agli assorbenti studi accademici».
Ricorda quando le proposero di guidare il centrosinistra alle elezioni politiche del 2001?
«Non accettai perché in quel momento la banca attraversava uno dei passaggi più delicati della sua storia (avevamo appena acquistato la Comit), ma anche perché dubitavo - e continuo a dubitare - che si possa assumere fruttuosamente un ruolo politico senza aver svolto un adeguato tirocinio sul campo».
Il cattolico in politica. Come deve distinguersi?
«Ha il compito estremamente arduo di tradurre sul piano sociale i precetti evangelici. Questi hanno una valenza perfetta nell’ambito dei rapporti individuali. Poi però bisogna trasporli - in questo consiste la “laicità”, cioè la mediazione razionale e culturale dei laici - sul piano sociale, politico e legislativo».
L’immigrazione, per esempio. La carità per definizione è illimitata, la legge, invece, pone dei limiti, no?
«In un primo tempo papa Francesco ha incoraggiato un approccio tendenzialmente radicale al problema dell’immigrazione; in seguito ha chiarito i limiti di un’accoglienza responsabile e sostenibile. Sostengo, ad esempio, che l’Europa, per non essere travolta, dovrebbe assumersi come compito primario il rilancio economico dell’Africa, che tra vent’anni avrà più di due miliardi di abitanti».
Dal Partito popolare alla Dc. Quale differenza?
«Mio padre auspicava il ritorno alla denominazione di Partito popolare. Considerava “cristiano” un aggettivo troppo coinvolgente per la Chiesa. Sturzo, non solo per opportunità, ma per consapevolezza storico-politica, aveva voluto evitare ogni riferimento diretto al cristianesimo o alla Chiesa, anche memore dell’esperienza di Murri. Il nome di Partito popolare significava un’assunzione di responsabilità da parte dei cattolici, ma aperta a tutti: una piena accettazione, all’interno del cattolicesimo, della democrazia, del suo metodo, del suo valore».
Ritorno al Partito popolare. Popolare, non populista...
«Don Sturzo guardava a una istituzione statale che comprendesse strumenti di partecipazione da parte di una realtà popolare che aveva conosciuto da vicino e studiato a lungo prima di fondare il nuovo partito. Tra i segni distintivi, le autonomie locali, il ruolo dei “corpi intermedi”, quale cardine – sottolineava – per conseguire “la maturità civile”. Una visione che comportava una forte innovazione rispetto allo Stato liberale».
La sua Brescia fu il laboratorio del Partito popolare per la regia di Martinazzoli. Perché il progetto non attecchì?
«Martinazzoli era più un uomo di pensiero che un capo politico. Più a suo agio nel ragionare e nel discutere che nell’agire. È stato comunque un politico di raro livello: a Brescia ha lasciato una forte impronta».
Dal Partito popolare alla Dc. Un bilancio?
«Sicuramente positivo, nonostante l’involuzione e il declino degli ultimi anni. Il partito di Sturzo si è opposto al fascismo. La traversata del Ventennio e la Resistenza hanno forgiato una pregevole classe dirigente, a cui, nell’immediato secondo dopoguerra, riuscirono due capolavori (di diversa natura, uno sul piano dei valori etico-culturali, l’altro sul piano politico): l’apporto determinante all’Assemblea Costituente e il 18 aprile 1948: un successo, quest’ultimo, non previsto e che assicurò alla Dc la guida della ricostruzione e della rinascita dell’Italia».
L’Assemblea Costituente come modello...
«Cattolici, liberali, comunisti: seppero fondere tradizioni, storie, idee diverse nella norma fondamentale, la Costituzione. Un testo di straordinario valore, che è anche frutto (un aspetto poco considerato) della comune formazione umanistica delle forze in campo. Si può ricordare, a questo riguardo, che alla fine dei lavori fu concordemente decisa una revisione linguistica del testo costituzionale, affidata al classicista, e comunista, Concetto Marchesi».
L’Italia sgangherata di oggi. Che cosa attendersi dalla Chiesa?
«Oggi l’impegno dei cattolici in politica non può e non deve avere come obiettivo l’affermazione di un’identità e di interessi di parte. A difettare in modo preoccupante è un ethos civile. La Chiesa dovrebbe impegnarsi - mi pare lo stia facendo - a colmare questo vuoto, per evitare una crisi irreversibile della democrazia».
E come?
«Ho appena letto sul Regno un editoriale di Gianfranco Brunelli che suggerisce un Sinodo d’Italia. Un’idea che mi pare in linea con quella espressa su Civiltà Cattolica anche da padre Spadaro (come è noto, molto vicino a Papa Francesco). Ma, se considero i grandi mutamenti intervenuti nel mondo e nella stessa Chiesa dal Concilio Vaticano II ad oggi, la crisi di valori dell’Occidente e alcuni importanti temi dottrinali da affrontare nuovamente, mi chiedo se non si debba pensare a un nuovo Concilio Ecumenico».
L’Occidente non è sul viale del tramonto?
«La globalizzazione è stata una grande occasione perduta dall’Occidente. Trent’anni fa, con la caduta del Muro di Berlino, l’Occidente ha vinto un conflitto potenzialmente devastante con il mondo comunista. E l’ha vinto senza ricorso alle armi, ma per una superiorità di ordine economico e tecnologico: l’Est non reggeva più il confronto con Ovest (come Gorbaciov comprese lucidamente). Quell’occasione fu persa perché la globalizzazione non fu guidata da una visione politica lungimirante, ma dal perseguimento di profitti immediati ed è sfociata nella grande crisi che ha investito e messo a rischio i valori basilari su cui è fondata la civiltà occidentale».
Affaccia su via Monte di Pietà a Milano lo studio di Bazoli. Un indirizzo che si incontra in Malombra di Fogazzaro. Il modernista Fogazzaro ... Modernismo come sinonimo di inquietudine, un tratto nitido del Professore. Un’inquietudine che però non intacca la sua fiducia nel futuro affidato alle giovani generazioni. A condizione - avverte - «che noi rimaniamo integrati e protagonisti in Europa. Perché non è pensabile l’Italia fuori dall’Europa (così come non è pensabile un’Europa senza l’Italia)».