la Repubblica, 26 febbraio 2019
E Freud scoprì il nemico interno
Il nostro tempo sembra esaltare acriticamente l’ideologia del benessere: l’uomo sarebbe un animale edonistico che mira e si vota integralmente al proprio piacere. Tuttavia si diffondono espressioni di violenza e di distruzione che contrastano con questa rappresentazione retorica dell’umano: guerre, invidia e odio sociale, sovranismo, razzismo, fondamentalismi ideologici, culto spietato della competizione, ecc.
In un’opera titolata Al di là del principio di piacere, concepita esattamente cent’anni fa, Freud, con il concetto di Todestrieb (pulsione di morte), ci costringeva già a vedere oltre l’ideale edonistico del benessere e a prendere consapevolezza di come l’attrazione verso il Male non definisca semplicemente una regressione dell’uomo all’animale, ma l’essere dell’uomo in quanto tale. Dopo la carneficina della Prima guerra mondiale e in prossimità dell’atroce devastazione dei totalitarismi, Freud scrive la sua opera probabilmente più ambiziosa e più inquietante, destinata a diventare una pietra dello scandalo in seno alla dottrina psicoanalitica. Si tratta di una svolta traumatica: la figura sconcertante, paradossale ed enigmatica della pulsione di morte fa irruzione nel testo di Freud sovvertendo i capisaldi di ogni rappresentazione naturalistico-edonistica della vita umana. È la sua seconda drammatica navigazione, quella dove egli procede in totale solitudine, senza nessun vento a favore, con le sole forze delle sue braccia. Solo Melanie Klein e Jacques Lacan prenderanno davvero sul serio questa svolta che viene invece tendenzialmente rigettata dalla comunità analitica come esito di una speculazione solo astrattamente filosofica di un ormai vecchio Freud afflitto da pesanti lutti personali e da una malattia logorante.
La prima navigazione freudiana aveva costeggiato il continente dell’inconscio mostrando l’esistenza di un desiderio irriducibile alla sfera razionale della coscienza. Nei sogni, nei lapsus, negli atti mancati e nei sintomi il desiderio inconscio prende parola anche se il suo codice non rientra in nessuna lingua conosciuta. Esso genera rebus, cifrature e condensazioni di senso imprevedibili; metafore e metonimie, direbbe Lacan, attraverso Jakobson. In questa prima navigazione Freud raggiunge una verità che corrode il narcisismo dell’Ego: l’Io non è padrone in casa propria, la vita della coscienza non può pretendere di esaurire il carattere labirintico e stratificato della vita psichica. L’illusione cartesiana del primato del cogito si ribalta: il pensiero non esaurisce l’essere.
Ma in questa prima navigazione egli può usufruire di un vento largo che proviene dalla filosofia tedesca post-idealista: Schopenhauer e Nietzsche, già prima di Freud, avevano indicato l’esistenza dell’inconscio.
Nella seconda navigazione – quella che viene inaugurata con la svolta di Al di là del principio di piacere — Freud procede invece in totale solitudine. Non può usufruire di nessun vento a favore. La sua tesi è sconvolgente: l’uomo non solo non è padrone in casa propria, non solo è diviso da se stesso, ma è contro se stesso.
L’uomo non vuole il proprio Bene, non agisce ispirato dall’ideale naturalistico-edonistico del proprio benessere – come si direbbe oggi –, ma ricerca (inconsciamente) il proprio male, la propria distruzione. Una tradizione consolidata dall’Etica Nicomachea di Aristotele sino all’utilitarismo empiristico di Bentham, ha sostenuto, in forme differenti, il principio di fondo secondo il quale il fine ultimo dell’azione umana sia ilraggiungimento del proprio bene.
All’origine è l’idea aristotelica della saggezza che incarna la virtù mediana, evitando gli eccessi e l’intemperanza, e ispirando la vita al principio universale del bene.
Lo stesso Freud prima di concepire Al di là del principio di piacere aveva condiviso questo paradigma: l’apparato psichico è governato dalla tendenza a evitare il dispiacere e a procurarsi il piacere. Si tratta di un funzionamento omeostatico: evitare le tensioni interne o ridurle al loro livello più basso. Ma il principio di piacere, da questo saggio in avanti non è più sufficiente a spiegare la vita umana. Si pensi alle nevrosi traumatiche da guerra: perché – si chiede Freud – i soldati che ritornano dal fronte non riescono a dimenticare i loro traumi ma tendono invece a ripeterne coattivamente i contenuti? Il principio di piacere non dovrebbe ordinare la dimenticanza, l’allontanamento dalla fonte del dispiacere, la cancellazione delle sensazioni spiacevoli? Ma è soprattutto l’esperienza clinica della psicoanalisi a portare Freud di fronte all’abisso della pulsione di morte: perché i pazienti non vogliono guarire? Perché insistono nel ripetere scelte o comportamenti che fanno loro del male? L’eco paolino della Lettera ai Romani ritorna con tutta la sua forza anti-greca: «Perché non faccio quello che voglio, ma quello che odio?». È il fenomeno della coazione a ripetere che manifesta l’esistenza della pulsione di morte. L’etica della psicoanalisi appare totalmente irriducibile a quella greca: la conoscenza del Bene non comporta affatto la realizzazione del Bene. Il soggetto può conoscere il proprio bene ma sentirsi irresistibilmente attratto a compiere il proprio male. È lo scandalo assoluto della pulsione di morte: la vita è una corsa rovinosa verso la morte. Essa vuole godere sino a morire, sino alla distruzione della vita stessa.Questa è la scoperta sconcertante che Freud compie: i pazienti non vogliono guarire, non vogliono rinunciare al loro godimento rovinoso. Un masochismo originario scardina il quadro morale dell’artistotelismo.
Diversamente dalla vita animale – governata infallibilmente dalla legge naturale dell’istinto di vita – quella umana non evita affatto il male ma lo brama, lo ricerca coattivamente. La scissione che la attraversa non è più solo relativa al decentramento dell’Io, non è più solo la scissione che separa l’inconscio e la coscienza, ma una scissione che coinvolge l’esistenza stessa del soggetto. Gli esseri umani non vogliono il loro bene, ma il loro godimento e non nonostante sia pericoloso per la vita, ma proprio perché cattivo o pericoloso per la vita. Ecco il paradosso più terribile custodito dalla pulsione di morte: la vita tende al proprio godimento anche se questo godimento è contrario alla vita. Di fronte agli occhi di Freud si spalanca il mistero di un godimento che vuole essere più forte della conservazione della vita stessa. Solo la forma umana della vita può conoscere infatti la vertigine di un godimento che porta la vita al confine della morte.