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 2019  febbraio 26 Martedì calendario

La vera storia della notte di Peveri

C’è del gasolio da rubare da un escavatore. Sono in tre, tre ladri, la sera del 5 ottobre 2011. Dorel Jucan, Florin Bichiu e Andrei Viorel Ucrainet s’erano messi d’accordo per andare a Mottazziana, sul greto del torrente Tidone, sotto il ponte della provinciale 11. L’escavatore è di Angelo Peveri, che, per conto della Regione Emilia Romagna, ha l’appalto dei lavori sul greto. Appena i tre infilano il tubo di gomma nel serbatoio per riempire le loro quattro taniche, avvolte nella plastica nera dei sacchi dell’immondizia, scatta l’antifurto – sono le 20, 52 minuti e 44 secondi – e s’accende il cellulare di Peveri.
La storia nera, che porta l’imprenditore in carcere e il leghista Matteo Salvini, ministro dell’Interno, ad accordargli fiducia e compassione, andando a fargli visita in cella a Piacenza, comincia in questo modo. Alcune parti della ricostruzione sembrano oscure come quella notte, ma è vero che altri dettagli sono nitidi. A cominciare dal fatto che Peveri mente. E lo dicono i giudici, che l’hanno condannato sino alla Cassazione, concentrandosi sul fucile a pompa Mossberg-Maverick. Nel caricatore – particolare da ricordare – Peveri ha infilato sei cartucce.
Quattro sono le cosiddette less than lethal, cioè sparano palle di plastica. Le ultime due no, contengono ognuna nove palle di piombo. Peveri avvisa il figlio Luigi, che sta nella sua stanza, e per telefono convoca un dipendente, Dino, come chiamano il romeno Gheorghe Botezatu: «C’era un po’ di diffidenza nei miei confronti al punto che si sospettava potessi essere quello che dava indicazioni ai ladri su come compiere furti di gasolio» dirà Dino in uno degli interrogatori. Gli spetta un compito: «Una volta arrivato, avrei dovuto bloccare la strada (...) nella speranza di intercettare gli eventuali ladri e impedirne la fuga».
La caccia al ladro ha inizio. Peveri padre, che tempo prima era riuscito a beccarne altri due, è il più lesto a raggiungere, nove minuti dopo aver lasciato casa, il cantiere. Dal ponte sul Tidone spara più volte. «In aria», dice lui. Però Ucrainet, uno dei ladri, ha una ferita al gomito: interrogato a caldo dai carabinieri, senza sapere dell’amico ferito, sostiene di essere stato colpito mentre se la filava nei campi. Gli altri due, Florin Bichiu e Dorel Jucan, attraversano spaventati l’acqua del Tidone, senonché Jucan ci ripensa. Vuole recuperare la Passat, l’ha lasciata vicino al cantiere, ed è quando torna indietro che viene centrato al petto, appena un quarto d’ora dopo l’allarme antifurto. Sono le 21.08 quando al 113 viene registrata la voce di Peveri: «Comunque ho sparato a uno, ci vuole l’autombulanza qua».
L’imprenditore derubato sostiene che, dopo il controllo dal ponte, è andato nel cantiere «in un buio quasi completo se non per la luce del faretto che ho montato sulla canna» del fucile a pompa. Là sbuca una «sagoma umana»: si spaventa, scivola e «per non autolesionarmi (...) mi irrigidivo di scatto tanto da avere una contrattura del dito appoggiato sul grilletto, a causa di tale movimento partiva un colpo di fucile, dopodiché cadevo a terra e non vedevo più». Però arriva Dino in soccorso, così s’accorge di un giovane ferito che si lamenta.
Dorel Jucan ha ricordi opposti. Dice che è stato Dino, l’operaio di Peveri, a bloccarlo (lo riconoscerà in fotografia). Dino lo fa mettere in ginocchio, con le mani dietro la nuca. Il tempo di obbedire e a Jucan arrivano un paio di mazzate alle braccia. Poi arriva anche Peveri, lo afferra per il collo, gli fa sbattere la testa sui sassi e spara due colpi: il primo a vuoto, il secondo centra il giovane nella parte destra del petto. Le ferite di Jucan sono perfettamente sovrapponibili al suo racconto, dalle escoriazioni sul collo ai lividi sulla testa. Sul terreno si trova il suo orologio Cromotech, con cinturino rotto sotto i colpi. I nove pallini, quattro rimasti nel petto e cinque usciti dalla schiena, l’hanno centrato «con un’inclinazione di circa 45 gradi, dal basso verso l’alto»: certo, va detto che questa inclinazione è stata «ritenuta compatibile sia con la vittima a terra in posizione supina e il feritore in posizione eretta, sia con il ferito in posizione eretta e il feritore disteso in terra».
Ma c’è un ma: «Non trova alcuna plausibile spiegazione all’interno della sequenza degli accadimenti riferita da Peveri» il fatto che, «nella finestra d’espulsione del fucile a pompa» sia stata trovata una cartuccia, «integra e inesplosa». Cioè, se Peveri era caduto, e il colpo era accidentale, come ha potuto ricaricare il Mossberg-Maverick? Non aveva raccontato di averlo poggiato alla pala dell’escavatore per soccorrere Jucan?
Di questi tempi urlati, qualcuno può pensare che la vita e l’integrità di un uomo valgano meno di una tanica di carburante, e che se lo Stato fa cilecca, l’unica via resti cercarsi giustizia da soli. Ma se non un cittadino qualsiasi, ma un ministro dell’Interno si ostina a non leggere le carte giudiziarie, che messaggio lascia?