26 febbraio 2019
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Biografia di Recep Tayyip Erdoğan
Recep Tayyip Erdoğan, nato a Istanbul il 26 febbraio 1954 (65 anni). Politico. Presidente della Turchia (dal 28 agosto 2014). Già primo ministro turco (2003-2014) e sindaco di Istanbul (1994-1998). Leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) (dal 21 maggio 2017; in precedenza, dal 2001 al 2014). «Il 4 luglio 1918, Mehmet VI saliva al soglio della Sublime Porta per certificare la sconfitta nella guerra mondiale e assistere allo smembramento dell’impero ottomano. Qualche anno dopo Mustafa Kemal assicurava Mehmet alla storia come l’ultimo sultano, il 36°. Dopo 623 anni d’impero, nasceva la repubblica. Un secolo più tardi, ricordando il glorioso passato e i “tradimenti” che nei momenti di crisi ogni autocrate imputa agli altri, Recep Tayyip Erdogan vuole resuscitare una versione moderna di quella Turchia ottomana: se Mehmet è stato l’ultimo sultano del XX secolo, lui da “presidente esecutivo” vuole essere il primo del XXI» (Ugo Tramballi) • «Kemal Atatürk […] affrontò nel 1921 la sfida con la modernità, impose uno schema istituzionale di esclusione dell’islam da qualsiasi agibilità politica e statuale, lo relegò alla sfera religiosa e mise a presidio di questa barriera laica il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, in cui i generali turchi sono maggioranza e hanno potere di nomina di… se stessi e addirittura di dimissionamento di un governo che violi la laicità. Non solo: Atatürk tentò di minare alle radici la presa dell’islam: chiuse d’imperio le confraternite islamiche (che però si inabissarono ed elusero i divieti), ne sequestrò i beni, pose le moschee sotto il controllo del governo e cambiò l’alfabeto da arabo a latino: una specie di “genocidio culturale”. Erdogan ha sviluppato tutta la sua impetuosa carriera politica con l’obiettivo di eliminare questa tutela istituzionale dei generali sul potere esecutivo e di far trionfare l’islam politico in tutti gli spazi della società. Questa è la chiave della sua leadership, sviluppata con prudente gradualismo e una forte predisposizione alla “dissimulazione”, tipica arma dell’islam politico» (Carlo Panella) • Umili origini. «Nato […] in una famiglia originaria di Trebisonda (o forse della Georgia) a Kasimpasa, vecchio quartiere di Istanbul che confina col Corno d’Oro, si trasferisce con la famiglia sino ai 13 anni a Rize sul mar Nero, a causa della professione del padre: guardia costiera. Ritornato a Istanbul, viene iscritto in un liceo religioso (Imam Hatip), scelta usuale per le famiglie turche tradizionaliste, che però non permette l’accesso agli studi superiori né alla Scuola superiore di amministrazione cui Tayyip ambisce» (Panella). «Le modeste condizioni della famiglia lo obbligano per mantenersi a vendere ciambelle e limonate» (Alberto Negri). «La prima passione del giovane Erdogan è il calcio, ma deve celarla al padre, che la ostacola (nasconde persino le scarpette nel sacco del carbone). Quando decide di passare al professionismo, in vista di un eccellente ingaggio nelle seconda serie turca, il padre lo blocca, e si concretizza la prima “sliding door” della sua vita. Trova infatti un modesto impiego nella società di trasporti urbani di Istanbul – penetrando così nei meandri politici e amministrativi della municipalità più grande d’Europa (12 milioni di abitanti) –, e si iscrive alla Federazione giovanile del Partito della salvezza nazionale (Msp), filiazione della Fratellanza musulmana diretta da Necmettin Erbakan, per poi passare al suo nuovo partito, Refah. In Turchia, però, prendere la tessera di un partito nella prospettiva di farvi carriera impone di muoversi anche su un livello “coperto” misterico. Per un islamista, l’obbligo è di iscriversi a un ramo della confraternita sufi Naqshbandiyya, ed Erdogan sceglie il ramo “Nur”, “Luce”, in cui militano sia il leader Erbakan sia il teologo Fethullah Gülen. Una “copertura” indispensabile: nella confraternita e nei suoi misterici conciliaboli vengono prese le decisioni che contano. Specularmente, se Erdogan fosse stato un laico kemalista, la sua iscrizione al Partito popolare repubblicano (Chp) avrebbe comportato l’iscrizione alla massoneria, baricentro decisionale dei Giovani turchi, di Kemal Atatürk e – sino al governo Erdogan – del quartier generale delle Forze armate. Sono questi i pilastri su cui si basa quello “Stato profondo” determinante nel processo decisionale e nella dinamica di potere in Turchia. […] La sua carriera pubblica inizia con la conquista della municipalità di Istanbul, di cui è sindaco dal 27 marzo 1994 al 6 novembre 1998. Defilato in questo ruolo amministrativo, Erdogan assiste da una posizione protetta al declino del suo leader Erbakan, che pure aveva vinto le elezioni politiche del 1997 e che era stato nominato primo ministro, ma che viene dimesso d’autorità dai generali del Consiglio per aver violato la laicità dello Stato. L’ennesimo “golpe bianco” dei generali turchi. Erdogan termina però la sindacatura di Istanbul con un arresto per “violazione della laicità e incitamento all’odio religioso”, per aver pronunciato durante un comizio questi versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…”. Nulla di eversivo, ma indicativo della volontà dei generali di non concedere il minimo spiraglio all’islam per entrare nella scena politica. Un indubbio sfregio alla libertà di pensiero, ma anche un argine al dilagare dell’islam politico. Erdogan prende atto della condanna e ne trae prudenti conseguenze. Rompe con Erbakan e fonda il moderato Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), assieme all’ex sindaco di Ankara Abdullah Gül e al teologo Fethullah Gülen, leader della Fondazione Hizmet, che controlla migliaia di moschee nel mondo, molti network televisivi e giornali ed è ramificata ai vertici della magistratura e della polizia (Gülen parte subito per un libero esilio americano, per non essere arrestato dai generali). L’Akp di Erdogan e Gül si presenta alle elezioni politiche del 2002 sfruttando tre clamorosi scenari. Innanzitutto la scomparsa dalla scena del Partito democratico (Dyp): travolto dagli scandali finanziari, dalla corruzione e dallo scoppio della enorme bolla speculativa “delle piramidi”, il Dyp non passa la soglia di sbarramento con il 9,6 per cento. In secondo luogo una situazione economica fuori controllo, con l’inflazione al 73 per cento, che spinge l’elettorato alla ricerca di homines novi. Infine, il meccanismo distorsivo indotto dallo sbarramento che la legge elettorale turca fissa al 10 per cento (per escludere la rappresentanza della minoranza curda, appunto il 10 per cento della popolazione), sorpassato dall’Akp con un 34,3 per cento che però gli assegna la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, perché deve condividerli con una sola altra forza politica, il laico Chp, che si ferma al 19,38 per cento. Questo primo trionfo di Erdogan è oscurato dall’umiliazione personale che gli viene inflitta dai generali: la sua elezione in Parlamento è annullata a causa della sentenza del 1998. Con spirito realpolitiker, il leader dell’Akp rispetta il verdetto (si farà eleggere in seguito in un turno suppletivo), nomina premier Abdullah Gül e inaugura una fase di moderazione in politica estera e di straordinaria efficienza nella politica economica. Nel 2003 Erdogan [ammesso in Parlamento il 9 marzo e divenuto primo ministro quattro giorni dopo – ndr] invia la flotta turca a difendere le coste di Israele da un eventuale attacco missilistico di Saddam Hussein (mossa incredibile con gli occhi di oggi) e assicura all’America l’uso delle basi turche per un contingente di 60 mila militari americani che invaderanno l’Iraq da nord. L’assicurazione però è vanificata in Parlamento dall’Akp, non è chiaro se con l’approvazione o no di Erdogan stesso. Il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, intanto, condensa la nuova strategia di politica estera della Turchia nello slogan “Nessun problema con i vicini”, inclusi Cipro e la Grecia, nemici secolari. Quanto a Israele, durante i primi anni del governo Erdogan, continuano le manovre militari congiunte turco-israeliane, Ankara acquista carri armati israeliani e soprattutto firma un mega-contratto per la fornitura a Israele di acqua potabile, via mare, per decine di milioni di dollari. Un prezioso aiuto strategico a Gerusalemme. Si consolida così la fama di Erdogan (che ha portato in tre anni l’inflazione turca dal 70 al 5 per cento) quale leader di un islam moderato. Erdogan, nel frattempo confermato premier vincendo nel 2007 col 46,58 per cento le elezioni, avvia quel radicale ribaltamento del modello democratico turco che aveva dissimulato per anni. Incredibilmente è l’Unione europea a chiederglielo, perché per l’ingresso della Turchia in Europa è indispensabile che Ankara applichi i “parametri di Copenaghen”. Bruxelles chiede a Erdogan di eliminare i poteri sovraordinati al governo esercitati dai generali turchi attraverso il Consiglio per la sicurezza nazionale: violano i princìpi definiti da Montesquieu, ma Montesquieu non pensava a una società islamica. L’Europa, senza neanche rendersene conto, concorre a eliminare il formidabile impedimento istituzionale all’esondare dell’islam politico in Turchia. Da parte loro, i generali del Consiglio si trovano con le spalle al muro di fronte alla spada dell’ingresso nell’Ue brandita da Erdogan.