il Giornale, 26 febbraio 2019
Sulla guerra di Corea
Quando la Seconda guerra mondiale finì, a colpi di atomica, nessuna delle potenze vincitrici aveva fatto una vera riflessione sul destino della Corea. Per lungo tempo erano state in ballo questioni ben più preoccupanti. Dal punto di vista ufficiale se ne era discusso alla conferenza del Cairo del 1943. L’accordo raggiunto tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina prevedeva l’indipendenza della penisola dal Giappone, a guerra ultimata, e lo status di nazione neutrale. Non andò così quando anche l’Urss dichiarò guerra al Giappone. Nell’estate del 1945, in tre settimane, i sovietici occuparono la Manciuria, le isole Curili, la parte meridionale dell’isola di Sachalin e la penisola coreana fino al 38º parallelo. Lì si fermarono semplicemente perché incontrarono gli statunitensi che la stavano occupando, in tutta fretta, per prevenire la loro avanzata, a partire dalla regione meridionale.
Gli americani si erano, finalmente, resi conto che il Giappone rischiava di essere accerchiato dalle forze comuniste e stavano correndo ai ripari. Nessuno però capì, sul momento, che quella linea tracciata sulla carta, e accettata dai Russi obtorto collo, si sarebbe trasformata in una linea di faglia permanente in grado, ancora oggi, di condizionare la politica mondiale. Nessuno immaginava che da lì a pochi anni il regime instaurato nel Nord dai sovietici, e poi appoggiato dalla nascente Cina comunista, avrebbe scatenato una guerra tremenda che nessuno sarebbe stato in grado di vincere.
In Italia quel conflitto è stato poco studiato ma ora è arrivato in libreria il saggio di Gastone Breccia, Corea la guerra dimenticata (Il Mulino, pagg. 392, euro 25), che l’analizza nel dettaglio, sulla base anche di consistenti ricerche svolte in loco. Il dimenticata del titolo si spiega con il fatto che sia il blocco dei Paesi occidentali sia i cinesi sono usciti dallo scontro senza un trionfo netto e che, quindi, alla fine hanno preferito lasciar depositare quel conflitto nelle pieghe della Storia. Quanto ai coreani del Sud la considerano una immane tragedia di cui parlano con pudore. Cosa ne pensino i coreani del Nord non è dato sapere, sono obbligati dal regime a chiamare quello scontro fratricida Grande guerra patriottica e tanto basta. Compulsando il libro di Breccia, che insegna storia militare all’università di Pavia, ci si rende conto di quanto poco gli Stati uniti fossero pronti ad affrontare il conflitto coreano. L’attacco delle truppe di Kim Il Sung, il dittatore della Repubblica Popolare, colse impreparato non solo l’esercito del Sud ma anche i consulenti Usa. Quando il 25 giugno 1950 le truppe comuniste scattarono all’attacco non c’era nessuno in grado di fermarle. Il primo ufficiale americano che si rese conto di ciò che stava succedendo, il capitano Joseph R. Darrigo, dopo essere sfuggito sgommando sotto il fuoco dell’Armata del popolo, dovette lanciare due volte la sua jeep contro le cancellate del comando della prima armata. Dormivano tutti comprese le sentinelle. La situazione cambiò poco nelle settimane a seguire anche quando fu chiaro che le truppe comuniste del Chosn inmin’gun stavano facendo sul serio, le truppe Usa mandate in fretta e furia dal Giappone continuarono a lungo a mostrarsi inadeguate. La Corea del nord schierava solo un centinaio di carri armati T34/85 ricevuti dai russi. Una miseria confronto all’enormità di mezzi corazzati schierati nelle battaglie europee della Seconda guerra mondiale. Eppure gli americani, e tanto meno i coreani, non avevano alcuna arma anticarro adatta a perforare la loro corazza frontale. Soldati inviati in Corea ufficialmente per una missione di polizia internazionale si trovarono ad essere travolti da reparti addestrati per anni, in Cina, per combattere una guerra vera. In breve gli Usa, e il governo sud coreano in fuga, si trovarono a controllare solo il cosiddetto quadrilatero di Pusan nel Sud del Paese. In questa fase della guerra l’unica cosa che il generale Walton Walker, l’uomo di MacArthur in Corea riuscì a fare fu barattare terreno contro tempo. Rallentando l’avanzata coreana, anche a costo di sacrificare interi reparti, riusci a consentire l’arrivo di rinforzi e il dispiegarsi dell’enorme potenziale della flotta e dell’aviazione statunitense. Soprattutto diede il tempo a MacArthur di dare il via all’operazione Chromite. Ovvero uno sbarco nel porto di Incheon che avrebbe preso alle spalle i nordcoreani, ormai sbilanciatissimi verso sud e con le linee di comunicazione e rifornimento assottigliate all’inverosimile.
Il piano di MacArthur funzionò, trasformando il generale, già amatissimo dopo la Seconda guerra mondiale, in un vero eroe nazionale a cui nessuno, presidente Harry Truman compreso, aveva il coraggio di dire di no. Ma proprio la nuova e travolgente avanzata delle truppe dell’Onu, capitanate dagli statunitensi, finì per generare un nuovo disastro. Da Washington continuavano a ribadire che non si doveva minacciare eccessivamente i territori cinesi a nord del fiume Yalu: erano le zone più industrializzate della Repubblica popolare. Ma MacArthur abile stratega, ma non altrettanto abile politico, non volle sentire ragioni. Pensava che mai i cinesi sarebbero intervenuti nella guerra. Nell’autunno del 1950 300mila cinesi spianarono, con la forza del numero, le prime linee americane. La guerra si trasformò in un mattatoio di offensive e contro offensive dove nessuno poteva più vincere davvero. Ne uscì la pace necessaria o meglio l’armistizio del 27 luglio 1953. Che ancora ci tiene sospesi, sempre a un passo dal ripiombare nel baratro.