Corriere della Sera, 25 febbraio 2019
I cuori fanatici di Albinati
Amore e ragione è il sottotitolo di Cuori fanatici, il nuovo romanzo di Edoardo Albinati. Ovvero, Ragione e sentimento, come noi italiani siamo abituati a ricordare il capolavoro di Jane Austen, Sense and Sensibility nell’originale. L’ironico omaggio di Albinati alla grande maestra inglese sottintende una consapevolezza: l’arte narrativa può mutare nel tempo con clamorose rivoluzioni, ma la materia umana a disposizione degli scrittori è pur sempre la stessa. È un vero paradosso per il romanzo, che ha sempre preteso di essere il genere più moderno e avventuroso. Le vecchie, eterne forze contrarie sono ancora i motori narrativi più efficaci. Come, appunto, il fatale squilibrio, o il conflitto all’ultimo sangue, dell’amore e della ragione. E l’eventuale, momentaneo accordo fra i due opposti principi: che è una felicità fuggitiva e un’estasi laica.
Per certi aspetti, con Cuori fanatici, in libreria da domani per Rizzoli, Edoardo Albinati completa una trilogia avviata nel 2012 con Vita e morte di un ingegnere, e proseguita con La scuola cattolica (2016, Premio Strega). L’affinità di questi tre libri consiste nel fatto che il ricorso alla memoria (nel doppio senso dell’evocazione di un tempo storico e di un tempo privato) fornisce ad Albinati molti fatti, e l’occasione di meditarci sopra con un suo particolare stile ibrido e sospeso tra il gusto del racconto, l’indagine morale, un saggismo sempre capace di esercitare una grande intelligenza del mondo.
In Cuori fanatici però Albinati volta le spalle al racconto in prima persona e dà forma a un azzardato esperimento romanzesco, con molti personaggi e intrecci fatti di relazioni ed eventi sapientemente «montati» tra di loro, con una tecnica che mi ha ricordato, più che dei precisi antecedenti letterari, certi capolavori del cinema come Short Cuts di Robert Altman (ispirato ai racconti di Raymond Carver) e Magnolia di P. Th. Anderson. Ciò significa che è del tutto impossibile rendere un’idea credibile di Cuori fanatici riassumendone la trama, che di fatto nemmeno esiste. I personaggi di Albinati non collaborano allo sviluppo di una storia che li riguarda tutti, dotata di uno svolgimento e di una conclusione. Come se si passassero una staffetta, salgono alla ribalta, si fanno conoscere quanto basta a farci affezionare e incuriosire, per poi cedere il passo a un nuovo episodio, a un nuovo punto di vista, a una nuova configurazione simbolica della realtà. È addirittura inutile aggiungere che questa tecnica narrativa esige un grandissimo senso della misura e delle simmetrie necessarie a reggere l’edificio: ancora di più in un testo scritto che in un film, probabilmente, perché il lettore che si sobbarca il peso di immaginare non deve mai avere l’impressione di trovarsi di fronte a un’accozzaglia di frammenti, cosa che lo indurrebbe rapidamente ad abbandonare il libro.
Ebbene, Albinati supera in scioltezza questa difficile prova. Se disgrega l’unità d’azione, in compenso si attiene rigorosamente a quella di tempo (gli anni Ottanta) e di spazio (Roma). A partire da Nico e Nanni, amici e caratteri misteriosamente complementari, quasi tutti i personaggi sono giovani, intorno ai trent’anni, e se fanno cose da adulti (come mettere al mondo figli, o insegnare a scuola) pagano tutto il prezzo psicologico della precocità, sono ancora alle prese con una condizione di apprendisti che tende ad allungarsi più del previsto. Il loro ceto è una borghesia romana più sagace e ironica che effettivamente illuminata. Il momento storico è quello degli Anni di Piombo, indagato non tanto nella sua sostanza ma nelle sue più sottili e impercettibili conseguenze psicologiche. Più che il segreto e la violenza, i personaggi di Cuori fanatici percepiscono all’opera una forza più oscura di ogni definizione, un principio implacabile di erosione della realtà. Ma tra la storia collettiva e la vita dei singoli, esiste pur sempre un largo, incommensurabile spazio occupato dalla città: questo luogo davvero unico al mondo nel quale non è mai possibile distinguere esattamente l’eternità dalla pigrizia, e dove la bellezza scorre impercepita come il suo fiume prigioniero di argini che lo rendono invisibile.
Proprio al Tevere a alla sua inquietante «clandestinità» sono dedicate alcune delle pagine più memorabili del libro di Albinati, che sembra sfidare in campo aperto Pasolini sovrapponendo la propria capacità di visione a quella del maestro. Da Petrolio inoltre, l’estremo capolavoro di Pasolini, Albinati sembra aver derivato un tono narrativo vagamente sapienziale, ironico e allegorico, capace di sottrarre peso alle sue mutevoli apparizioni («più le cose sono tremende più siamo spericolati, i racconti si sono distaccati dai corpi fisici e ora vagano in un mondo fatto di pura sincerità, un universo sportivo dove il dolore originario viene solo simulato»).
Da «Petrolio», estremo capolavoro di Pasolini, deriva
un tono vagamente sapienziale, ironico
e allegorico
Corrobora molto questo proposito uno stile singolarissimo, attraverso il quale l’autore ci ricorda sempre le sue prerogative, la sua capacità di fare e disfare i suoi fantasmi. Spiazzante ed efficace a questo proposito mi sembra il continuo gioco dei tempi verbali, che oscillano imprevedibilmente tra il presente storico e il passato (un esempio tra mille: «I suoi capelli non la convincono. Provò ad aggiustarli con le mani»).
In questo modo, ogni storia che ci viene raccontata, priva com’è di un finale esplicitamente dichiarato, non solo vale per sé, ma allude sempre a un ulteriore significato possibile, a un livello di verità che non può essere direttamente afferrato dalle parole e dalla loro organizzazione narrativa. Ciò di cui leggiamo, insomma, è il risultato irrimediabile di una rifrazione, non è arrivato in maniera diretta sulla pagina, seguendo il percorso più breve e rettilineo. Il dio si nasconde sempre nei particolari, nelle digressioni, e l’unico modo decente di svolgere un tema è quello di andare fuori tema.
Ne possiamo ricavare l’immagine mentale di uno scrittore arguto e sapiente, che ritaglia con cura le sue figure come se volesse farne (per lui e per chi lo legge) uno schermo da opporre a una luce troppo intensa: la luce del tempo, che è anche fatalmente quella del destino, della mortalità, delle domande ultime che risorgono sempre, come malinconiche fenici, dalle loro ceneri.
Quello di Cuori fanatici, in ultima istanza, può ricordare il coro di una tragedia greca. Con la differenza che il coro classico commenta un mito, ben visibile al centro del dramma: le fatiche di Ercole, le sventure di Edipo... Albinati ci ricorda che per noi, timidi e spennacchiati epigoni degli antichi, il coro sopravvive a un mito che nessuno è più capace di raccontare e che probabilmente è scivolato via dalla città come il marciume trascinato dalla corrente del suo fiume.