Corriere della Sera, 25 febbraio 2019
Intervista a Gilda Moratti
Cleopatra scodinzola, Bianca abbaia, Whisky mangia, Pluto salta, Cassaforte s’accuccia, Sigmund si stira, Ofelia raspa, Basta sbadiglia, Nulla sporca... «Ho quindici cani, tutti di strada. Sei gatti. Un pappagallo. E soprattutto due bambini: Anastasia e Lupo. Lo so, avrei tante ragioni per non andare in giro a rischiare la pelle».
E che bisogno c’è, allora?
«È più forte di me: non me la sento di rimanere in questa casa meravigliosa a Milano e far finta di niente. Ho molta più paura di lasciare ai miei figli questo mondo, ridotto com’è, che combattere rischiando qualcosa. C’è da proteggere l’unico pianeta che abbiamo».
Gilda Moratti ha un cognome che le permetterebbe la noia del lusso. Il papà era il petroliere Gianmarco, scomparso un anno fa. La mamma è Letizia: l’ex ministra, l’ex presidente Rai, l’ex sindaca di Milano. Lo zio è Massimo, ovvero l’Inter. Il mondo di Gilda è l’ambiente: «Ma io non apro orfanotrofi per cuccioli, non pattuglio i mari. Da più di sei anni, vivo facendo intelligence. Un approccio nuovo, anomalo, forte. Con Andrea Crosta e Francesco Rocca ho fondato l’Eal, Elephant Action League, e finanzio indagini sul contrabbando d’avorio, faccio arrestare i trafficanti di specie protette: 250 miliardi, il terzo grande affare del crimine internazionale dopo la droga e le armi. Facciamo operazioni sotto copertura, usiamo ex agenti Fbi, microspie. Abbiamo appena finito una missione in Messico».
Per difendere che cosa?
«La vaquita. Un delfino meraviglioso, intelligente, sembra un cartone animato. Il panda del nuovo millennio. Nel Mar de Cortés, che Cousteau definiva l’acquario del mondo, ne sono rimasti quindici e in cattività è impossibile riprodurli. Ormai sono quasi estinti: restano impigliati nelle reti dei cartelli criminali che danno la caccia a un altro pesce, il totoaba, un branzinone che il mercato cinese considera “magico” e paga anche cinquemila dollari a esemplare. Questa pesca senza controllo distrugge i fondali e ammazza la vaquita. Io sono stata là una settimana. L’unico posto dove ho avuto paura. Più che in Somalia o in Sierra Leone. Sono andata a San Felipe e ho detto una piccola bugia a mia mamma, per non spaventarla. Perché ci sono questi pick-up che circolano, questi sguardi cupi... Da scappare».
Risultato?
«Abbiamo girato un documentario prodotto da Leonardo Di Caprio, Sea of Shadows, che ha appena vinto il Sundance Film Festival e verrà proiettato all’Onu. Lì, si vede chi siamo noi di Eal, come lavoriamo: schedando i criminali, collaborando coi servizi segreti. E diventando pericolosi per la gang. In Africa abbiamo fatto arrestare il Totò Riina del contrabbando d’avorio. In Cina, abbiamo filmato i trafficanti. In certi Paesi come il Kenya o la Tanzania, a me hanno sconsigliato d’andare. In Sudamerica devo stare attenta: noi Moratti siamo noti per l’Inter, troppi rischi».
Ma la paura? Mai?
«Nel pericolo, mi esce una freddezza incredibile. Sono tornata dai miei viaggi con la dengue emorragica e la tse-tse. So che cos’è la malaria, il morso della zecca. Anche perché sono contraria ai vaccini, li odio».
Una No Vax che va in Africa?
«Mi curo con le erbe. Non dovrei nemmeno tornarci, se riprendo la dengue sono guai. L’ultima volta sanguinavo dalle mucose, sono collassata in casa. La tata dei miei figli m’ha portata di corsa al Sacco. Due mesi terribili. Ma poi sono ripartita. Non potevo mollare i progetti».
E dire che suo padre era cacciatore...
«Sì, però smise quando colpì un cervo e il cervo non morì: ci rimase male. Erano tempi diversi, un’altra generazione. Quando mi vedeva partire per una tribù dell’Amazzonia, settimane senz’acqua e appesa a un’amaca, o raggiungere il Cimitero degli Iceberg, dieci giorni nella tempesta con la gente che impazziva e voleva buttarsi dalla rompighiaccio, lui si preoccupava. Ma mi sosteneva. E mi prendeva in giro: stavolta come muori, sbranata o sparata? Papà, gli rispondevo, vorrei ricordarti come m’hai cresciuto: pensavi d’avere una figlia che si divide fra Montecarlo e le Maldive?».
Non era così?
«Come cresci, quello diventi. Io sono venuta su a San Patrignano. Perché i miei erano una cosa sola e l’impegno sociale era il collante del loro amore: a San Patrignano hanno messo l’anima, il cuore, la vita. Papà ridava al sociale quel che riteneva necessario e ancora oggi il segno è fortissimo: ha voluto essere sepolto là, in mezzo a tanti ragazzi morti di Aids».
Un’infanzia semidorata...
«Dorata, no. Felice, sì. Dai tre anni ai diciotto, tutti i weekend, i Natali, le vacanze stavo sempre a San Patrignano. Un po’ lo pativo, i miei amici andavano a sciare e io no. Era uno sdoppio difficile: dormivo in roulotte vicino ai tossicodipendenti, la notte sentivo le urla per le crisi d’astinenza, facevo pipì nelle turche comuni, ricordo i piedi nudi sul cemento freddo d’inverno, e poi tornavo a Milano e andavo alla scuola privata con la scorta. Però io la vivevo con cameratismo, la c’erano i miei compagni di gioco. Marcello Chianese, oggi uno dei responsabili della comunità, arrivò quando avevo undici anni. Era a pezzi: io non capivo e gli rompevo le palle, gli tiravo il fieno. Per me era tutto un gioco. Crescendo, è cresciuto l’affetto per quei ragazzi, i loro cani, i loro cavalli».
La passione per la natura è nata lì?
«Sì. Per me San Patrignano era una collina sul mare, la libertà che non avevo nella gabbia milanese con tutte le comodità. Vivo da sempre con la scorta e questo dualismo rimane anche oggi: a Milano, esco pochissimo. Per andare in palestra, in montagna o in aeroporto».
A caccia di cacciatori d’avorio. Ma con tutti gli umani che stanno male nel mondo, è così urgente salvare le bestie?
«Una cosa non esclude l’altra. Un trafficante di specie protette, traffica anche armi, droga, organi, schiave del sesso, bimbi. L’avorio finanzia il terrorismo degli shabaab somali. Con Sarah Ferguson, mi sono occupata anche dei bambini soldato in Africa. E ho un progetto legato a Dadaab, il più grande campo profughi del mondo. Dovrebbe conoscere il protagonista del libro La città delle spine: lo rapirono i jihadisti a dieci anni, riuscì a scappare e arrivò a Dadaab. Da lì però non uscirà mai più: gli Usa lo considerano un terrorista. Oggi ha vent’anni, vorrebbe fuggire in Libia, prendere un barcone per l’Italia. Gli ho comprato un taxi, trasporta quelli dell’Onu: almeno ha un lavoro».
L’ha aiutato a casa sua, direbbe qualcuno.
«A Dadaab sono mezzo milione. Un’umanità disperata. Chi può, si dà al bracconaggio. Ecco perché tutto questo è legato alla salvezza d’un mondo che coinvolge uomini e animali insieme».
Qualcuno critica: ma come, una figlia di petrolieri che s’occupa d’ambiente?
«Non siamo gli unici petrolieri a farlo. L’ambiente oggi è un po’ una moda. Tutti ne parlano. Io provo a trovare soluzioni».
In politica, con chi sta?
«Non mi sono mai considerata niente. All’estero, ci sostengono gli Obama, Hillary Clinton, la famiglia reale inglese. Molta Hollywood, anche: c’è il progetto d’una serie tv su di noi, stile Narcos. Persino Gheddafi fu il primo a dire che l’acqua è un problema molto più urgente del petrolio. In Italia, niente: i Verdi sono politicizzati, non vedo leader sensibili. Anche Giovanna Melandri se n’è andata, quando ha capito che tanto non cambia nulla. Gli ambientalisti, i conservazionisti, gli animalisti... Tutti “isti” che parlano fra loro e non alla gente. Nomi senza contenuto».
A proposito di nomi: da dove viene Gilda?
«Da un bell’Ermenegilda della mia bisnonna. Mamma non voleva darmelo, ma papà fece il blitz all’anagrafe. Per fortuna, mi chiamavano così solo agli esami d’università, quando mi preparavo con Indro...».
...Montanelli?
«Sì. Ho preso 110 e lode con Giorgio Rumi, alla Statale, solo perché mi preparava lui. Era un amico di famiglia. Io divoro i suoi libri ancora oggi. Una sera a cena gli dissi che studiavo storia. E lui: senti, quando devi preparare gli esami, vieni a casa mia. Allora andavo in viale Piave, mi sedevo per terra con caffè e sigarette, lui pure. Dicevo: Indro, ho Storia medievale, cosa racconto? Lui iniziava ed era come ascoltare una favola. M’ha preparato fino all’ultimo esame. Un giorno gli ho detto: ci vediamo la prossima volta? E lui: no, io me ne vado, ciao, salutiamoci qui... Due settimane dopo m’ha chiamato la mamma: era mancato. Feci un necrologio sul Corriere: dicevi sempre che scrivevi sull’acqua, ma sul mio cuore hai scritto per sempre».
Indro vedeva sua madre leader del centrodestra: Letizia Moratti tornerà in politica?
«Non ne ho idea. Con lei, non si sa mai. Fa esperienze mirate e, raggiunto un risultato, passa oltre. Sul lavoro è tosta, un panzer. In famiglia, no. Ha un’immagine pubblica molto diversa da quel che è: dolce».
È vero che papà, da piccoli, vi faceva vestire di nerazzurro?
«Ma no. Però giocavamo a calcio in casa, nel corridoio: papà e mamma in porta, noi quattro figli in mezzo. E l’Inter l’ho seguita anche nei miei quindici anni all’estero».
Con lo stipendio di Icardi, quanti animali si salverebbero?
«Paragone impensabile. Allora bisogna dirlo anche d’un manager d’una banca, molto più scandaloso. Sarebbe fantastico, questo sì, se il calcio s’impegnasse di più nel sociale».
Uno come Briatore dice che i ricchi, il bene, lo fanno creando lavoro.
«Dare lavoro è più intelligente che dare soldi: esistono i modelli di charity sustainable, poi dipende da che causa sposi. Noi abbiamo aperte cinque investigazioni in quattro Continenti, dal rinoceronte al giaguaro. E ogni dossier costa cinquantamila dollari solo per iniziarlo: voli, raccolta dati...».
Gli incontri che l’hanno segnata?
«Il Dalai Lama: energia, simpatia, l’ironia dell’intelligenza. Ero con mio fratello Angelo, ci parlò dei suoi rapporti con Mao, senza un minimo di rancore. E poi un lebbroso a Calcutta: era moribondo, lo vidi e mi misi a piangere, ma lui mi sorrise con quel poco del viso che gli era rimasto. Una persona anonima, un’anima grande».
Lei compare pochissimo. Perché quest’intervista?
«Papà era il capo tribù, con lui era tutto più facile. Mi manca. Se sono guerriera, ho preso da lui. E ora tocca a me continuare. Prima mi sentivo figlia, adesso non più».