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 2019  febbraio 25 Lunedì calendario

Martone kolossal. Intervista

Dopo un mese di corpo a corpo con Musorgskij, sono stremato. Perché Chovanscina è un’opera lunga, perché è russa, perché racconta una storia complicata. Ma soprattutto perché è uno straordinario teatro, che ti mangia, ti pervade, e guarda l’uomo con la profondità e la densità della grande letteratura russa, come un Dostoevskij in musica».
Mario Martone torna alla Scala per la sesta volta, compreso il Sant’Ambroeus di due anni fa. Mercoledì debutta la sua regia di Chovanscina, capolavorissimo molto politico, intrighi di religione, amore e potere sullo sfondo della presa di potere dello zar Pietro non ancora Grande. Dirige Valery Gergiev, compagnia quasi tutta etnica (da tenere d’occhio il debutto milanese del notevolissimo soprano Evgenia Muraveva) e scene di Margherita Palli che collocano la complicata vicenda in un futuro distopico.
Musorgskij, però, fu molto dettagliato nella sua ricostruzione della Russia della fine del diciassettesimo secolo...
«Verissimo. Scrisse anche il libretto e si documentò con grande precisione e scrupolo. Infatti la Russia, nel mio spettacolo, c’è. Ma l’opera è visionaria, trascende la cronaca. E il fatto di essere specifici non impedisce di allargare lo sguardo a una riflessione più ampia sulla Storia, a una prospettiva più “lunga”. Sarebbe facile trasformare la setta dei Vecchi credenti, che rifiutano la riforma della Chiesa ortodossa fino a immolarsi in un rogo collettivo, in uno dei tanti fondamentalismi di oggi. Ma così si rischierebbe di appiattire sull’attualità un’opera che è invece una riflessione su un momento di trasformazioni e contraddizioni, in fin dei conti molto simile al nostro, e sulle meccaniche del potere di ieri, di oggi e penso anche di domani».
Su tutta l’opera aleggia lo zar Pietro che però non si vede mai.
«Infatti. È l’eterno uomo forte della storia russa che mette ordine nel Paese in un momento di caos. E perciò è stato sempre amato, sia nell’Urss sia nell’attuale Russia putiniana. Però l’opera non si conclude con lo zar che prende il potere, ma con i Vecchi credenti che si suicidano. Insomma, alla fine in Musorgskij prevale il pessimismo, non riesce ad avere fiducia nel progresso».
«Chovanscina» è anche la storia di un tentativo di riforma che viene rigettato dal popolo.
«Perché in questo caso le riforme sono imposte dall’alto. È questo il problema: se le riforme non nascono dal popolo ma sul popolo è impossibile attuarle. Un altro dei nodi insolubili che Chovanscina ti mette davanti».
A forza di farne, ormai è diventato un regista d’opera. Altri progetti?
«Definiti, no. Proposte interessanti, sì, molte, anche dalla Scala con la quale c’è un rapporto molto bello».
Intanto il suo ultimo film, «Capri Revolution», è candidato ai David del 27 marzo...
«Le nomination che ha raccolto sono tredici, segno che è piaciuto. Spero di portare a casa qualche premio, ma la concorrenza è molto forte. Sono tutti colleghi molto bravi, quindi non mi faccia dire per chi voterei. Ma solo che mi sembra un bel segnale che in corsa ci siano anche due donne».
Prossimo film?
«Intanto ne ho già uno già pronto. Nasce dal Sindaco del Rione Sanità di Eduardo che abbiamo fatto in teatro con il Nest di San Giovanni a Teduccio e che è andato benissimo, ripreso un po’ dappertutto. Ne è nato un film “low budget” che ho girato molto rapidamente, diciamo così, fra Capri e Mosca, cioè fra Capri Revolution e questo Musorgskij. Credo che uscirà a primavera».
Si parlava anche di una serie tivù su Eduardo De Filippo.
«Che invece non farò. Ma resterò vicino al personaggio. Il prossimo film “grande” sarà sul padre di De Filippo, autore e attore pure lui, Eduardo Scarpetta, che sarà interpretato da Tony Servillo con cui torno finalmente a lavorare».
Ultima domanda. Per dieci anni, dal 2007 al ’17, lei è stato direttore artistico dello Stabile di Torino. Qualche rimpianto?
«Rimpianti no, ma Torino mi manca molto. Se mi volto indietro sono orgoglioso di molti spettacoli che abbiamo realizzato, come le Operette morali o La morte di Danton o La serata a Colono, scommesse che non avrei mai immaginato di poter fare e vincere. Sono stati anni bellissimi grazie alle persone con cui ho collaborato e allo Stabile, dove c’è un modo appassionato e serio di lavorare. Molto torinese».