La Stampa, 25 febbraio 2019
La lotta tra cani vale miliardi
Kali e Marika sono stati imbottiti di nandrolone e carnitina, dopati e «asciugati» in attesa di rappresentare i Wild Boys Kennel contro i rivali del Top Line. Senza incrociarsi, hanno combattuto con destini opposti, il primo è morto e l’altra ha vinto. Zeus invece l’avevano testato con un paio di «roll», battaglie di prova in attesa di farlo scontrare con Dwaith: si sono massacrati e l’esito del match è stato decretato ai punti, mentre nelle varie gang in contatto per dar corpo al giro si materializzavano figure come «i belgi», «il francese» e «Marko il serbo». Le sequenze sono descritte nelle carte dell’ultima inchiesta in Italia sui combattimenti tra cani, pitbull soprattutto.
Una storia truce di Fight Club per cani con pagine Facebook segrete, scommesse da migliaia di euro e una rete transnazionale che addestra e piazza i suoi campioni dei ring clandestini.
Secondo la Lav (Lega italiana antivivisezione), dopo la grande stagione del controllo camorristico a fine Anni 90, quando la onlus quantificò in mille miliardi di lire il giro d’affari, il fenomeno cresce di nuovo e parecchio (+5-10% di denunce all’anno nell’ultimo biennio), ma sotto mentite spoglie. Le organizzazioni sono più parcellizzate, si guarda spesso all’estero, tanto che tre miliardi di euro è l’ultima e più attendibile quantificazione del «fatturato» in tutta Europa, con puntate minime da 250 nelle arene di bassa categoria e vette da 10 mila quando a sfidarsi sono esemplari dal pedigree sostanzioso, magari ben sbandierato sui siti Internet dove la promozione dei match è confusa dietro una più innocente, e solo apparente, «vetrina».
C’è poi un altro aspetto da circoscrivere, con riflessi sanitari preoccupanti: l’arruolamento avviene sempre più tra i randagi che nella Penisola crescono a ritmo esponenziale, rasentando ormai il milione di animali. E sebbene la legge sia stata calibrata con un reato specifico su chi organizza le sfide più sanguinarie, alla fine le condanne non superano mai i due anni. Ciò perché risulta complesso il riconoscimento di autentiche associazioni per delinquere. E dietro una forma di brutalità così estrema e redditizia si nascondono spesso altre forme di criminalità, come il traffico di droga oppure i prestiti a strozzo.
“Seviziati per fortificarli”
Per focalizzare la dimensione della violenza sprigionata da alcuni gruppi si può ripercorrere il dettaglio degli addebiti mossi alla banda attiva fra Imperia, Pavia, Teramo e la Serbia, che un’indagine per un po’ rimasta in sonno ha infine permesso di attribuire a 25 indagati. «Organizzavano la compravendita o lo scambio di cani di grossa taglia, di tipo molossoide e prevalentemente sprovvisti di micro-chip, su tutto il territorio italiano oppure provvedevano alla loro importazione dall’estero e li allevavano in varie località per impiegarli in combattimenti».
Proprio la freddezza delle carte giudiziarie certifica l’orrore della preparazione alle battaglie e le conseguenze: «Sottoponevano i cani a condizioni d’isolamento, a diete rigide, a continua tensione psichica nonché alla somministrazione di sostanze stupefacenti o vietate, del tipo nandrolone, in particolare il Decadurabolin».
Marco Calì è il capo della squadra mobile di Genova, che ha condotto la prima tranche di accertamenti, e la mette giù chiara: «Quel che sbalordisce è il cinismo nei confronti degli animali e una certa strutturazione dei compiti, con la creazione di piccole palestre e vessazioni sistematiche per aumentare il rendimento degli esemplari».
L’obiettivo? «Potenziare la muscolatura dei vari esemplari - qui torniamo alle parole dei magistrati - aumentare in modo innaturale l’aggressività, desensibilizzarli rispetto all’anomala attività di allenamento». Il riflesso è «un danno alla salute degli animali e la morte di un numero indeterminato». Non manca il dettaglio dei contatti, della logistica imbastita sottobanco e con professionalità millimetrica, della monetizzazione: «Le lotte in alcuni casi provocavano il decesso o la scomparsa degli animali stessi e gli organizzatori si scambiavano, attraverso piattaforme informatiche, informazioni sui luoghi degli eventi, sui contendenti, sui risultati degli incontri, nonché materiale audio-video dei combattimenti».
La community criptata
Le «piattaforme» sono le pagine segrete e i gruppi Facebook creati con lo scopo di risultare invisibili.Come in un romanzo di Chuck Palahniuk, la prima regola è non parlare mai del Fight Club. I partecipanti si ritrovano in rete e, come per l’innocuo Fantacalcio, hanno squadre, classifiche, compravendite e trasferte. Tutto illegale, una vera e propria community con gergo e parole criptate.
Il collante è fornito dal’insana passione per lo show dei cani che uccidono altri cani. Il gruppo viene aperto, ad esempio, per organizzare un match, e sono forniti gli input logistici per raggiungere l’arena top secret. Solo a persone di fiducia è svelato l’account, chiuso in tutta fretta subito dopo il combattimento. I classici «insospettabili» sono invitati all’evento per scommettere o partecipare direttamente all’incontro con propri animali. E se i proprietari non vogliono avere grane, li affidano agli organizzatori e si gustano lo scontro da casa grazie alle immagini riprese con gli smartphone e trasmesse online. Per i cultori di queste sfide - è inclusa la versione contro cinghiali o maiali - la fase dell’addestramento è la cartina di tornasole per comprendere se il proprio esemplare sarà un campione o meno. Uno dei dati ineludibili è l’impiego del collare elettrico, per punire il cane con una scossa quando non risponde ai diktat. L’uso della violenza è smodato: bastonate, giorni a digiuno per essere nutriti con animali sanguinanti, dosi massicce e costanti di calci per far lievitare l’aggressività.
Un training senza tregua per creare killer e soprattutto ingrassare il portafogli. «Ritrovamenti di cuccioli con ferite o di bestie morte con cicatrici , furti di animali di grossa taglia, sequestri di allevamenti di pitbull, pagine Internet che esaltano le razze da lotta. Sono tutti segnali che raccontano un mondo sommerso e spietato», sottolinea Ciro Troiano dell’osservatorio zoomafia interno alla Lav.
I tre livelli dell’organizzazione
Dalle inchieste sono emersi tre livelli, con figure diverse che ruotano intorno alla galassia dei match: i delinquenti locali con funzioni di basisti (primo livello), i teppisti che curano la realizzazione vera e propria degli incontri con i trafficanti di cani cosiddetti «da presa» (secondo livello). Hanno ruoli differenziati e talvolta si trasformano in scommettitori o allibratori professionisti. C’è poi un ulteriore filone che è parallelo ma, contrariamente al passato, non esclusivo. Ed è quello che lambisce la criminalità organizzata. I rilievi della magistratura raccontano, infatti, l’interesse del clan Giostra di Messina e di alcune ’ndrine calabresi o di affiliati alla Sacra corona unita.
Il terzo livello non ha contatti con le mafie ed è costituito da allevatori senza scrupoli, compratori, stimatori di esemplari come dogo argentini, american staffordshire terrier e soprattutto pitbull. «Il fenomeno - prosegue Troiano - è tanto ben organizzato quanto sottovalutato. E lo prova più di tutto l’entità del business». Per un ring bastano quattro assi e un capannone, oppure la strada con un anello di persone a fare da recinto. Le location sono tante e diversificate: i bassi di Napoli, in passato i terrazzi delle Vele di Scampia. A Palermo, inoltre, è stato scoperto un ring improvvisato nel cortile di un’abitazione. Nella campagna dell’Oltrepò Pavese si trovano un numero imprecisato di cascine abbandonate o ricoveri diroccati per animali e cacciatori. Lungo la costa dell’Adriatico era un pescatore l’organizzatore dei combattimenti: portava uomini e cani al largo e si godeva lo «spettacolo».