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 2019  febbraio 25 Lunedì calendario

Economia e criminalità come cambiano le paure degli italiani

Da oltre 10 anni Demos e la Fondazione Unipolis conducono un’indagine sulle paure e l’insicurezza che pervadono le persone e la società. In Italia e in Europa. Per cogliere i cambiamenti che orientano le nostre percezioni. Perché le paure e l’incertezza sono divenute importanti nelle relazioni con gli altri. Ma anche nei rapporti con le istituzioni. Con la politica. Con i media.
Ebbene, in questa occasione qualcosa sembra essere cambiato. Perché “l’insicurezza” è “sicuramente” profonda, diffusa presso la popolazione di tutti i Paesi. Ma ha raggiunto, ormai, caratteri e isure stabili. Perfino in (lieve) de-crescita. Almeno in Italia.
Anzitutto: l’inquietudine “globale”. In Italia, coinvolge 3 persone su 4. Seguita dall’insicurezza “economica”, riguardo al futuro personale e sociale: oltre 6 persone su 10. Quindi, dalla paura generata dalla “criminalità” – soprattutto “organizzata”. Che preoccupa quasi 4 persone su 10. Questi sentimenti, presso un quarto della popolazione: si sommano. Generano insicurezza “assoluta”. Eppure, nessuna di queste paure, considerata singolarmente, appare in aumento, negli ultimi anni. Dopo i picchi osservati fra il 2012 e il 2014, si assiste, piuttosto, a un assestamento degli indici di insicurezza. È difficile pensare che si tratti di un’inversione di tendenza. Preludio a un’epoca di rassicurazione. Perché l’insicurezza mantiene indici elevati. E grande diffusione.
Questo trend suggerisce, invece, una spiegazione diversa. Forse, più “inquietante”. Una crescente assuefazione alla paura, meglio, “alle” paure. Ormai interiorizzate e, quasi, “date per scontate”. Nella società e fra i cittadini. Seppure in misura diversa, tra le diverse zone. In Italia e in Europa. Così resistono, ma generano meno emozione. Nonostante vengano amplificate dai media. Nei programmi di informazione, ma anche nei reality. Perché fanno – e diventano – spettacolo.
L’insicurezza, dunque, genera meno paura, nonostante continui a pervadere la società, perché viene “normalizzata”. Per citare un riferimento autorevole, Hannah Arendt, è “la banalità della paura”. “Dell’insicurezza”. Diffusa dovunque. E utilizzata di continuo, magari strumentalmente, dai media, nel discorso politico. Perché influenza le scelte elettorali e il clima d’opinione. E, al tempo stesso, favorisce gli ascolti. Così, “lo spettacolo della paura” si ripete di continuo. E fa (un po’) meno paura.
Tuttavia, si tratta sempre di un ri-sentimento diffuso. Seppure in modo diverso. Sotto il profilo sociale e territoriale. In Italia e in Europa, infatti, emerge una divisione comune e coerente. Un distacco fra Nord e Sud. In Europa: i Paesi mediterranei, Italia e Francia, insieme all’Ungheria, manifestano indici di insicurezza maggiori rispetto agli altri. In termini di soddisfazione “economica”. La stessa frattura emerge, in modo (forse più) evidente, in Italia.
Dove la misura delle paure, nel Mezzogiorno, risulta molto elevata. Sul piano sociale e demografico, peraltro, l’insicurezza scava, in modo più profondo, nei settori “periferici”. I disoccupati, le donne, gli anziani. Coloro, cioè, che guardano con maggiore difficoltà al futuro. È, quindi, significativo che il “futuro dei giovani” si presenti come un problema inquietante, in Europa. Dovunque. Ma in Francia e in Italia più che altrove. Soprattutto fra i più anziani. Che il futuro ce l’hanno alle spalle. E, per questo, faticano a guardare avanti.
Nell’indagine di Demos-Fondazione Unipolis echeggiano molti temi esplorati dalla riflessione sull’uomo globale. Che soffre per la perdita di confini spazio-temporali. Si pensi, fra gli altri, ai contributi di Zygmunt Bauman e di Anthony Giddens. Anche per questo l’immigrazione suscita inquietudine. Perché evidenzia la nostra vulnerabilità di “fronte al mondo”. Non è un caso che l’insicurezza pervada maggiormente coloro che comunicano attraverso la rete.
Mediante i social. Perché, nello spazio digitale: tutti sono (siamo) in contatto con (gli) altri. Sempre in “comunicazione”. Ma non in “comunità”. E, dunque: sempre “da soli”. L’insicurezza, invece, si riduce quando si allargano le relazioni “personali”. I legami di vicinato. Dove cresce la partecipazione. Insomma, quando si va oltre i social e si entra nel sociale.
Infine, la normalità dell’in-sicurezza contribuisce a spiegare il cambiamento che accompagna il campo della politica. Dove avanzano, dovunque, nuovi attori. Definiti con un termine, in parte, poco definito: “populisti”. I partiti “populisti”, infatti, stanno occupando uno spazio importante nei sistemi politici europei. Oltre le distinzioni storiche e tradizionali. Fra Destra e Sinistra. Liberali, Popolari e Socialisti. Questi partiti – più o meno nuovi individuano nell’Europa un bersaglio. In quanto governata da élite politiche, burocratiche e finanziarie.
Al tempo stesso, offrono risposta alla domanda di sicurezza che sale dalle “periferie” del potere. Riassunte in un “popolo” in-definito. Che non riflette più le tradizionali differenze di classe e di posizione sociale. D’altra parte, metà del campione definisce il proprio lavoro: flessibile, temporaneo oppure precario. Mentre metà della popolazione si colloca ancora nel “ceto medio”. Cioè: nel mezzo di una stratificazione di classe in-distinta.
La “normalità dell’insicurezza”, dunque, non costituisce un sintomo “rassicurante”. Al contrario. Perché accettare la “banalità della paura” significa perdere la speranza. L’orizzonte. Ma, così, noi stessi rischiamo di perderci.