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 2019  febbraio 25 Lunedì calendario

La rabbia è ereditaria

Le emozioni, scriveva Freud nell’Introduzione alla psicoanalisi, «proliferano nel buio». E la più oscura di tutte è la rabbia, o ira, con termine più nobile. Lo psichiatra Alberto Siracusano le ha dedicato il suo ultimo libro: Ira funesta. Imparare a gestire la rabbia (Mondadori, 215 pagg., 20 euro). Come indica il titolo, per fortuna non si tratta di un freddo resoconto clinico di casi di “arrabbiati”, anche se non mancano riferimenti a patologie come il disturbo borderline di personalità, il disturbo bipolare, la depressione, nelle quali la rabbia, verso gli altri o verso se stessi (come nel caso dell’autofustigazione cui si sottopone il depresso) è un sintomo cruciale. L’ira funesta, si ricorderà, è quella di Achille, di cui Omero narra all’inizio dell’Iliade. E Siracusano mette a confronto la rabbia di Achille, incontenibile, esplosiva e che, come dirà il poeta Orazio, «è quasi una piccola follia» con quella di Ulisse, «l’uomo ricco d’astuzie», che invece è capace di contenerla, di elaborarla e quindi di vincerla. Achille dunque soccomberà, mentre Ulisse riuscirà a consumare la vendetta contro i Proci. Sembra una verità risaputa, ma a giudicare da come vanno le cose nel mondo, ben poco messa in pratica. Siracusano cita il terrorismo di coloro che si credono “martiri della fede”, mentre invece sono solo accecati dalla rabbia che li porta a sacrificare se stessi per uccidere gli altri. Nel mondo moderno infatti l’istinto di morte, innato in ogni uomo come sapeva Freud, si manifesta con esplosioni di ira funesta. L’indottrinamento fanatico, in quel caso, agisce su personalità già predisposte da una rabbia assassina. Non basta quindi dissipare le false ideologie, bisogna anche insegnare a dominare l’ira che, altrimenti, troverà sbocco in qualche altra “guerra santa”. Ma anche se non arriva alle follie dei terroristi, la rabbia ci riguarda tutti, e lo sperimentiamo ogni giorno su Facebook o Twitter: «I social sono diventati mezzo privilegiato per scagliarsi contro l’altro, sia esso un personaggio famoso, un compagno di scuola o la persona con cui si è vissuta una “storia d’amore”. L’uso di immagini intime, rubate, e poi “condivise” per attaccare rabbiosamente l’altro, il proprio ex, umiliare chi ha fatto l’errore di credere e di aver fiducia in una relazione, è gesto sempre più frequente». 

CONNESSIONI CEREBRALI
La rabbia, ovviamente, non nasce con i social: il mettere alla berlina, la pubblica gogna sono costumi antichi, ma ne è potenziata. Ma perché in noi esiste la rabbia? Ed è sempre dannosa? La risposta alla prima domanda, spiega Siracusano, viene dalla struttura del nostro cervello, che è composto di tre parti: un cervello rettiliano (detto così perché ha forma simile al cervello di un rettile) che risalirebbe a 500 milioni di anni fa, e si occupa delle funzioni basiche per la nostra sopravvivenza (ad es. i bisogni fisiologici e la riproduzione); il cervello limbico, che si sarebbe formato tra i 300 e i 200 milioni di anni fa, e che presiede alle emozioni, come la rabbia e la paura; il cervello neocorticale, risalente a circa 200 milioni di anni fa, che svolge funzioni superiori come il ragionamento logico, il pensiero astratto e la fantasia. Questi tre cervelli, che si sono formati in centinaia di milioni di anni di evoluzione dell’uomo, sono connessi: ad esempio l’amigdala, una regione del cervello limbico dalla forma di mandorla, comunica con la neocorteccia. Detto in parole povere, questo vuol dire che il centro delle passioni è connesso con il centro della riflessione. Questo fa sì che gli uomini, diversamente dagli altri animali, possono “gestire” la rabbia, perché le funzioni superiori della corteccia cerebrale agiscono da “limite” per le emozioni più violente. L’ira funesta esplode quando questo meccanismo di regolamentazione non scatta, perché per quanto comunicanti, i nostri tre cervelli sono in qualche modo distinti, e ciascuno ha le sue priorità, e talvolta il più arcaico cervello limbico prevale sul più civilizzato cervello neocorticale. 

L’EDUCAZIONE
Ma di là dalle spiegazioni neurologiche, è decisivo anche il ruolo dell’educazione, del modello proposto dai genitori, e dalla cultura, affinché una persona riesca a gestire la rabbia. Innumerevoli studi confermano infatti che la rabbia viene trasmessa di padre in figlio, come una sgradevole eredità genetica. Un bambino che vede i genitori arrabbiarsi spesso, in modo sproporzionato e per ogni sciocchezza, si addestrerà a comportarsi in quel modo da adulto e, quel che è peggio, proporrà lo stesso esempio ai suoi figli, e così via. Il bambino infatti non sa distinguere una potenza “buona” da una “cattiva”, e l’autorità di un genitore collerico per lui sarà incarnata solo dalla rabbia e dalla violenza, e questa equazione gli resterà impressa a lungo. È facile immaginare quale pessima educazione possa a sua volta dare ai suoi figli, scambiando l’autorità con l’aggressività e la durezza d’animo. D’altronde, la rabbia, quando è misurata, come quella di Ulisse e non quella di Achille, è indispensabile al nostro vivere e, del resto, essendo strutturalmente presente nell’essere umano, bisogna comunque farci i conti. Siracusano ad esempio mette in luce il pericolo di reprimerla sempre, anche quando è del tutto legittima e, soprattutto, contenuta. Importanti sintomi di malessere, come mal di testa, gastriti, patologie cardiache spesso sono correlati a una storia di lunga repressione della rabbia. Anche se Sant’Agostino raccomandava di non cedere mai all’ira, «perché un fuscello può diventare una trave», dobbiamo invece dare sfogo all’ira ma “con misura”, come dicevano i Greci.