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 2019  febbraio 25 Lunedì calendario

Tredici mesi in Antartide sognando Marte

Da novembre 2017 a dicembre 2018. Un anno vissuto pericolosamente. Più che altro tredici mesi trascorsi nel più totale isolamento: tra esperimenti scientifici e scenari di viaggi verso Marte. Marco Buttu, ingegnere elettronico sardo, ha vissuto questo periodo al Polo Sud, alla stazione italo-francese Concordia nell’ambito del Programma nazionale di ricerche in Antartide del Miur, un progetto coordinato dal Cnr e dall’Enea. Sono proprio questi enti, infatti, a garantire il personale tecnico-scientifico per le spedizioni, mentre il Ministero della Difesa assicura la partecipazione di personale logistico delle forze armate.
Marco partiamo dall’inizio, perchè è andato al Polo Sud?
«Adoro le esperienze insolite, e questa aveva tutte le caratteristiche per esserlo visto che siamo rimasti isolati rispetto agli altri 7 miliardi e mezzo di persone, irraggiungibili, in carenza di ossigeno, al buio nel posto più freddo del mondo, con un clima desertico e un’aria secchissima».
Di che nazionalità erano le altre persone
«Sei italiani, sei francesi e un’austriaca. In tutto tredici, 11 uomini e due donne».
Ci sono stati momenti di tensione tra voi visto un simile isolamento?
«No, devo dire che è stato un gruppo fantastico e ci siamo comportati veramente bene. Ovviamente, come sempre accade nella vita, ci sono stati dei momenti di incomprensione e piccole tensioni, ma niente di particolare, né più e né meno che nella vita normale».
Ci descriva una giornata tipo
«Al lavoro dalle 8.30 alle 18.30, con una pausa pranzo dalle 12.30 alle 14 circa. La maggior parte delle attività vengono svolte all’esterno della base (manutenzione strumentazione, campionamenti della neve, lancio di palloni sonda, misure del campo magnetico terrestre e altro), altre attività all’interno. Poi dalle 18.30 sino alle 19.30, orario di inizio della cena. Tutti devono essere presenti sia per il pranzo sia per la cena, perché è importante non isolarsi dal resto del gruppo. Talvolta, quando ci penso, mi pare di essere ancora là».
Perchè si è imbarcato in questa avventura ?
«Un po’ per caso, dopo una chiacchierata con i colleghi durante una pausa lavorativa. Mi hanno parlato di una offerta di lavoro in Antartide, così ho inviato il CV e sono finito a Concordia».
Cosa c’entra il pianeta Marte con tutto questo?
«Uno degli scopi era anche riprodurre un possibile scenario di missione su Marte. Ci sono stati altri esperimenti del genere, ma questo a Concordia, probabilmente, è stato il più realistico: vuoi per i mesi di isolamento, vuoi per i possibili pericoli nel vivere in un ambiente così ostile. Dal punto di vista psicologico l’impatto è stato significativo».
Ogni quanto incontravate persone del cosiddetto mondo civile
«Da febbraio sino a novembre la stazione è irraggiungibile. Nessuno può andar via e nessuno può raggiungerti, per cui per nove mesi siamo stati soli, ancor più isolati degli astronauti che orbitano attorno alla Terra a bordo della Stazione Spaziale Internazionale».
Lei è un cultore di Yoga, quanto l’ha aiutata questa disciplina?
«Credo molto. Soprattutto perché a Concordia c’è il 40% di ossigeno in meno rispetto al livello del mare in Italia. La mia pratica infatti prevede un controllo della respirazione e l’esecuzione di tante posizioni invertite, ovvero con la testa più in basso rispetto al cuore, il che facilita il flusso del sangue alla testa, per via della gravità».
Quand’era lì nostalgia della sua terra, la Sardegna?
«In realtà non ho avuto tanta nostalgia, anche perché molte persone, principalmente sardi ma non solo, mi hanno costantemente fatto compagnia scrivendomi dei pensieri bellissimi, per l’intera durata della missione. Sono stati meravigliosi e non so proprio come sdebitarmi per tutto l’affetto ricevuto. Forse ho avuto un pizzico di nostalgia durante l’estate, perché avevo l’immagine del mare, del caldo e delle persone in vacanza, mentre da noi era buio e la temperatura si aggirava intorno ai -70 gradi centigradi. C’è stato inoltre il grande contributo di mia moglie: ci sentivamo quotidianamente, scambiandoci dei messaggi, e lei è capace di trasmettermi una grande serenità».
Se glielo proponessero, tornerebbe in Antartide?
«Si, è un’esperienza che vorrei ripetere».
Quale la sensazione più forte ed emblematica che ha vissuto?
«La percezione dell’isolamento avuta quando ho visto la base dall’aereo. Ricordo che ogni tanto rimuovevo il ghiaccio dal finestrino per dare uno sguardo fuori, ma il paesaggio era sempre lo stesso, piatto e monocromatico. Dopo quasi quattro ore di volo sopra l’Antartide senza vedere alcunché se non il bianco, ho intravvisto un piccolissimo puntino nero in mezzo al nulla. Ho poi iniziato a distinguere i colori ed il puntino lentamente si è dilatato prendendo forma: era la Stazione Concordia. Sapevo che si trattava del posto più isolato del pianeta, ma solamente in quel momento me ne sono reso pienamente conto».
Ora mi sta rispondendo da un aereo che la sta portando in India? Perchè va proprio lì?
«Un nuovo viaggio, sì. In una regione per tanti versi opposta rispetto all’Antartide. Voglio concludere il libro che ho iniziato a scrivere al Polo Sud, quindi ho scelto di farlo in India perché il volume sconfina nel misticismo, e qui è un luogo ideale».
La cosa che più le manca di questa avventura
«Il cielo stellato, il sorriso dei miei compagni, l’aiutarsi a vicenda, l’affetto delle persone che mi hanno scritto costantemente dei messaggi e ovviamente l’atmosfera unica di quel posto. É così diverso dal mondo normale che là ti senti veramente più vicino al cosmo che non alla Terra».