il venerdì, 22 febbraio 2019
A quattro anni dalla sua morte Luca Ronconi si racconta in un autobiografia mai scritta
Carte da buttare invece dimenticate nel disordine di un cassetto, o forse conservate inconsciamente: fogli dattiloscritti, con note a margine di diverse grafie, ritrovati dalla erede dell’archivio, riconosciuti da chi aveva registrato e poi battuto a macchina il testo. Consegnati a uno studioso amico per capire cosa fare di quegli appunti del passato, preziosi o forse no: se richiuderli nell’archivio o renderli pubblici dando una forma, un ordine, un arricchimento, all’accumulo disordinato di ricordi, confessioni, pensieri. Per trasformare quelle parole dimenticate ma non perdute in qualcosa che ancora non c’era, quindi preziosa; un tentativo di autobiografia, per quanto incompleta e interrotta, di un genio del teatro, così scontroso e segreto nella vita da non essersi mai rivelato come in quei fogli.
Ne è nato un lavoro di pura devozione e rimpianto cui si sono dedicati gli amici Roberta Carlotto, erede dell’archivio, della biblioteca, della scuola di Santacristina, Maria Grazia Gregori, che aveva raccolto e scritto le parole; e Giovanni Agosti che poi ha curato Luca Ronconi. Prove di autobiografia pubblicato da Feltrinelli, 480 pagine e molte fotografie anche inedite, dopo una ricostruzione e un restauro quasi maniacale; testo ricchissimo di note, citazioni, rimandi, precisazioni, date, che trasformano le parole dell’inventore di incanti teatrali nel romanzo inedito di un personaggio ricco e complesso, che in vita non si era mai rivelato se non ai pochi amici cui era stato imposto il silenzio.
Infanzia: «Sono cresciuto in fretta, come molti figli di separati: accanto a mia madre, spesso fuori di casa per il suo lavoro. Ho imparato presto a starmene da solo…». Maturità: «Non sento fastidio né paura della vecchiaia e neppure della solitudine che spesso va di passo con la vecchiaia… Per carattere sono uno che non si ribella: figurarsi se mi ribello all’idea di morire…».
Il libro è come la prima parte di una storia che purtroppo non avrà seguito almeno in forma autobiografica: perché l’accettazione a parlare di sé si arenaquando Ronconi ha 60 anni ed è ancora direttore del Teatro stabile di Torino: la parte più folgorante della sua vita professionale verrà dopo, con la direzione artistica del Teatro di Roma e soprattutto del Piccolo Teatro di Milano, oltre che dell’utopico Centro Teatrale di Santacristina, la località umbra dove già aveva la sua casa, la sua serra, il suo giardino, i suoi cani.
Ronconi ha già trionfato nella regia lirica con direttori musicali come Abbado e Muti, e in quel 1993 è il regista di tre opere, a Pesaro, a Salisburgo, alla Scala di Milano, e a Torino cura la regia teatrale di tre testi di Pasolini e a Genova uno di Capek. Però il tempo di incontrare Maria Grazia Gregori lo trova e lei ricorda: «Non so se con me lui sia stato del tutto sincero, ma credo abbia fatto un grande sforzo per esserlo».
Commovente ed essenziale ricordo di un grande del palcoscenico per la folla sempre più giovane degli appassionati contemporanei, questo bel volume, per chi, come me, a teatro va solo se trascinato, offre subito il capitolo Affetti e legami; visto che del privato di questo personaggio di fascino infinito sapevano solo gli intimi, minacciati di esclusione anche solo rivelando i nomi dei suoi cani bovari bernesi o il tipo di sementi dei suoi amatissimi fiori.«Se conto le amiche sulle dita di una mano, l’uomo al quale sono stato più legato è uno solo: Paolo Radaelli, la persona a cui, senza dubbio, dopo mia madre, ho voluto più bene». Non si sa molto su questa persona, e forse fu sua madre, una ricca signora milanese, a partecipare al finanziamento del celebre Orlando furioso; in una nota, per ricordarlo, Agosti riporta le parole del costumista Enrico Job, «il delizioso, intelligentissimo Paolo. Giovane, bellissimo, elegante, spiritoso…».
Di Riccardo Bini, conosciuto nel 1977 al laboratorio di Prato, ci sono foto e nessun commento: eppure alla morte del regista era ancora con lui, confidando ad Anna Bandettini di Repubblica: «Sono stato uno delle tante vittime delle sue meraviglie, folgorato da ragazzino… I rapporti personali per lui erano in secondo piano, qualcosa che quasi ostentatamente tralasciava. La sua vita era il lavoro».
A 21 anni, nel 1954, Ronconi lavorava nel cinema, a Roma, attore in film dimenticati come Vergine moderna e Scapricciatiello. L’anno dopo è a teatro in Tè e simpatia, e poi alla televisione in Le due orfanelle: coi neri capelli lisci e il viso ben rasato, non aveva certo il fascino che decenni dopo, con i lievi ricciuti capelli bianchi e la impeccabile barba bianca, ipnotizzava chiunque riuscisse ad avvicinarlo.
«Era molto carino, però cattivissimo» ricorda Anna Nogara, tuttora di bellezza perlacea, che sotto la sua regia ha fatto sette spettacoli e, sostituendo Edmonda Aldini, fu Brandimarte nel giro del mondo dell’Orlando furioso. Erano tempi eroticamente confusi per molti e, dice Anna, «ci siamo molto amati per tre anni, poi io me ne sono andata e credo non me l’abbia più perdonato». Nel suo testo comunque Ronconi non la nomina mai ed è nelle tante note di Agosti che l’attrice appare, come pure Olghina di Robilant, giornalista e star della café society di allora di cui sempre Agosti cita i ricordi: «Era un pulcino allora. Delicato e impaurito del mondo dello spettacolo. Giocammo a fare i fidanzatini di Peynet… ma lui era già sposato da sempre, per carattere, per natura per vocazione, a sua madre e ai personaggi più forti del suo stesso sesso».
Per tutta la vita, per lavoro, per amicizia, forse per predominio, Ronconi si è circondato di donne, tutte di intelligenza e creatività eccezionali, quasi tutte molto belle, appassionate, forse innamorate, consacrate, qualche volta disubbidienti, come Gae Aulenti, «un caratteraccio», grande scenografa in sue regie celebri, tra le tante Il viaggio a Reims, diretto da Abbado, prima al Festival di Pesaro poi alla Scala di Milano. Le voleva vicino ma forse gli erano antipatiche: le giudica possessive, gli pare che manovrino l’uomo con cui hanno un rapporto sentimentale: «Le donne aggressive le reggo sino a un certo punto, anche se nella mia vita ho incontrato solo donne aggressive; lo era mia madre…».
Cinque anni dopo la fine del tentativo di autobiografia Ronconi arriva al Piccolo, contemporaneamente a Sergio Escobar, che lo ha invitato: mai chiamato prima a Milano, diventerà il fulcro della passione teatrale della città, per 15 anni, sino alla sua fine, 34 spettacoli. Però su quel palcoscenico c’era già stato tanti anni prima, a 22 anni, e poi a 27, come attore, diretto da Strehler e da Squarzina. Ricorda Escobar: «Qui da noi ha diretto il suo ultimo capolavoro, Lehman Trilogy di Massini, più di 5 ore di meraviglia, teatro sempre esaurito, dal 29 gennaio 2015 per 90 repliche, più 40 in tournée. Era stato un impegno massacrante ma era in ottima forma: il 6 febbraio aveva partecipato a un incontro con il pubblico, il 7 aveva fatto lezione alla Scuola del Piccolo. Due settimane dopo, la sera di sabato 21 febbraio, moriva al Policlinico di Milano, mentre lo spettacolo era in corso. Avvisammo gli attori alla fine della recita. Il giorno dopo, domenica, all’inizio della replica pomeridiana, Massimo De Francovich, il capostipite Henry Lehman del testo, lo ha ricordato a nome di tutto il teatro».
Sulla misteriosa causa della brusca interruzione, tanti anni prima, del tentativo di autobiografia, può essere che abbia pesato proprio il Piccolo Teatro. Nelle note Agosti avanza una ipotesi che riguarda Franco Quadri, scomparso nel 2011, critico rispettato e temuto, amico di Ronconi, sul cui lavoro aveva scritto molto: non tanto il desiderio di essere lui l’autore della biografia quanto le prese di posizione di Ronconi che non condivideva. Come la sua ammirazione per il Piccolo Teatro, per Strehler, per Vittorio Gassman: ma si sa che il mondo del teatro, come tanti altri, è percorso da presunzioni e rivalità, e scrive Agosti che a Quadri «continuava a bruciare l’ostilità patita, e cercata, rispetto a via Rovello» mentre «Gassman non gli stava risparmiando bordate in pubblico», in particolare per la protezione al giovane regista tunisino Cherif. Fu poi Maria Grazia Gregori a rifiutarsi di proseguire nel suo lavoro, «con molto dolore e dopo averci molto lavorato». Non poteva più sopportare l’atmosfera spesso tesa che si creava tra Luca e Franco che certo erano amici ma non sempre erano d’accordo». Che peccato.