Il Messaggero, 24 febbraio 2019
Intervista al fotografo Maki Galimberti: «Litigo con le star per ritrarle meglio»
«La verità è che mi affascinano da matti gli altri. Io sono disposto a mettermi da parte». Parola di Maki Galimberti, fotografo milanese specializzato nel catturare sguardi e corpi delle celebrità. «Ma non sono un vero ritrattista, nasco come reporter di cronaca», puntualizza. Eppure è lui l’artista dietro tantissime copertine più importanti d’Italia e del mondo, da Vanity Fair a Newsweek, dai libri alle campagne pubblicitarie.
Partiamo con tre domande in serie: qual è stata la sua prima copertina?
«Un servizio per Panorama. Ero a Palermo per le manifestazioni dopo la morte di Falcone e Borsellino, nel 1992. Una tipica foto da reportage giornalistico».
E quella preferita?
«Non è di un magazine: è la foto dello scrittore Paul Auster sull’edizione Einaudi di Diario di inverno. Ha un volto incredibile. Quando sono arrivato fuori casa sua, però, è rimasto sulla porta. Ho scattato da lì».
L’ultima?
«La cover di Vanity Fair con Valerio Mastandrea. È stata durissima. Sono affezionato a un metodo di lavoro, e spero che il soggetto si adegui. Ma lui ha lottato come un leone: a guardare il risultato, meglio così».
Cronaca, scrittori, attori. Tre bei salti. Come si coniugano?
«Non esistono per me definizioni oltre la parola fotografo. Mi piace buttarmi nella polvere e mi piacciono le copertine patinate. Perché la fotografia è l’unico mezzo, oltre al cinema, che riesce a mostrare qualcosa che sta succedendo. Anche in un volto».
Quando è entrato in questo mondo?
«Ero poco più che maggiorenne. Un giorno facevo l’autostop e mi ha caricato Mimmo Carulli, un grande dell’agenzia Fotogramma. Mi ha proposto di andare da loro. Alla fine degli anni ’80 Milano era la Milano da bere: il mestiere del fotografo era affascinante. Conoscevi gente, rimorchiavi. Per dire: c’era un film, Sotto tiro, dove Nick Nolte fa il fotoreporter figo che soffia la fidanzata a un giornalista. Ecco. Io volevo essere così. Ma ahimè all’inizio non mi facevano scattare. Mi hanno messo su un motorino e giravo i giornali per vendere le immagini dei colleghi».
E poi? Qual è la sua Numero uno di Zio Paperone, la prima vera foto da professionista?
«Un giorno un colpo di fortuna: a un fotografo dell’agenzia riesce male lo sviluppo delle foto. Il suo servizio va in fumo. Così mi hanno chiesto: Puoi recuperare?. E sono partito. Le foto erano da un campo nomadi della periferia di Milano: soggetti che è difficile sbagliare, fotogenici a prescindere. Quando ho visto le foto pubblicate ho capito: potevo farcela».
Ora invece i suoi soggetti sono le celebrità. Da Margherita Hack in bicicletta a Rocco Siffredi che fa le pose da intellettuale. Come si fa a scattare così tanto e non ripetersi mai?
«Il mio nemico è l’artificialità, proprio mi imbarazza. Noi fotografi siamo cani da riporto: dobbiamo sempre completare il lavoro assegnato. Quindi per evitare la noia bisogna inventarsi qualcosa. Una bella ambientazione, una combinazione di espressioni, oppure far sì che accada qualcosa. Io cerco di ingannare chi ho di fronte, sempre».
Non saranno molto felici.
«Non divento mai amico delle celebrità, anzi. A volte negozio con cordialità, a volte ci litigo un po’, pur di portare a casa un bello scatto. È l’unico modo per rendere giustizia a loro e al mio mestiere. Però capisco che sia faticoso e imbarazzante essere dall’altra parte».
Qualcuno che l’ha mandato a quel paese?
«Me ne vengono in mente due, hanno fatto bene. Toni Servillo è stato sbrigativo e imbronciato. Lo capisco: passare da Sorrentino a me. E poi Ennio Morricone. All’Arena di Verona stava per condurre per la prima volta un’orchestra. Lo volevo fotografare a tutti i costi con la bacchetta. Lui non voleva in nessun modo. Alla fine ho dovuto cedere».
I soggetti preferiti, invece?
«Amo molto gli sportivi. Ho degli scatti di Rossella Fiamingo, schermitrice olimpionica. Sembra una divinità: quelle immagini mi fanno perdere la testa. Ma anche i calciatori. Ho fatto palleggiare Paulo Dybala in cima al Lingotto, in bilico dal palazzo storico della Fiat sopra le case degli operai. Un dipendente tra i dipendenti».
La celebrità che manca alla collezione?
«Sono indeciso tra Bob Dylan o Paul McCartney. Magari se suonassero contemporaneamente al mio campanello scatterei una foto dei due insieme».
Hai scattato una foto Dalai Lama molto famosa. Che ha detto quando eravate lì?
«La verità? Niente. Me l’hanno portato, fatto sedere, qualche minuto e poi via».
Suo figlio ha nove anni. Se volesse fare il fotografo, cosa gli direbbe?
«Intanto, preferirei di no. Ma se decidesse così, gli insegnerei il valore della necessità. Non solo in termini economici, di domanda e offerta, ma proprio nelle storie da raccontare. A chi può interessare? I nostri sforzi devono essere rivolti a qualcuno, non solo al nostro stesso compiacimento».
Nel 1965 Guy Talese doveva intervistare Frank Sinatra, ma il cantante aveva sempre il raffreddore. Alla fine il giornalista-scrittore ha firmato un favoloso reportage con le voci di chi ruotava attorno a The Voice. Chi è il suo Frank Sinatra?
«Per anni è stato Gillo Dorfles, il critico d’arte. Eravamo vicini di casa a Milano, ma ha sempre rifiutato. Odiava essere anziano ed essere ritratto come tale. Un giorno però l’ho visto al bar. Ho mollato tutto e ho iniziato a seguirlo per le vie di Porta Venezia. Ma non avevo la macchina fotografica. Sotto casa sua l’ho fermato e lui si è concesso. Ho scattato con un telefonino. Anni di fotografia e poi eccomi difronte al mio soggetto come un dilettante. Ma il risultato è stato comunque incredibile: una delle mie fotografie preferite».