il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2019
Intervista a Alberto Sironi
Da dietro la macchina da presa, Alberto Sironi non si sposta quasi mai: “In un viaggio aereo ho ascoltato il dialogo di una famiglia statunitense: imparavano l’italiano grazie alle puntate del Commissario Montalbano. Sapevano tutto. Entusiasti. E il loro obiettivo era visitare la Sicilia per ritrovare i luoghi delle riprese”. Ha rivelato loro il suo ruolo centrale nella fiction? “No, assolutamente, sono rimasto zitto e in ascolto, mi sembrava brutto dirgli: ‘Sapete, sono il regista della serie’. Non bisogna mai esagerare”.
Alberto Sironi è una di quelle persone diventate adulte con il coraggio di conservare intatti i propri sogni di ragazzo, quando parla mantiene sempre un tono lieve, spesso definisce i contorni delle frasi, gli dà colore, e con lui la sfera temporale non risente dei grigiori del tempo, nessuna malinconia, solo piacevole consapevolezza. Ieri come oggi. “Da sempre la mia passione è la regia, già da piccolo quando potevo andavo al cinema; però all’inizio ho studiato architettura al Politecnico di Milano, lo desiderava tanto mia madre, e per quattordici volte ho affrontato gli esami; poi ho ceduto alla passione e sono entrato al Piccolo diretto da Giorgio Strehler”.
Com’è arrivato a Strehler?
Grazie a un insegnante delle scuole medie: ci portava a vedere i suoi spettacoli, e io restavo affascinato da tanta bellezza, dalla magia sul palco. E quella magia evidentemente mi è rimasta dentro.
Perché non ha pensato di diventare attore?
Ignoro il motivo, ma ho sempre e solo pensato alla regia, a come mettere in scena, come costruire, come guidare il gruppo.
Strehler.
Meraviglioso. Tutti lo descrivono come un duro, in realtà era un vero maestro: sapeva anche le virgole di cos’è il teatro, si preparava di continuo, studiava sempre e permetteva a noi ragazzi di crescere accanto a lui; già allora, e parliamo dei primissimi anni Sessanta, ci spediva ovunque in Europa per visionare le produzioni straniere.
Il suo ruolo?
Eravamo in quattro o cinque, oltre a me anche Raffaele Maiello e Michael Grüber. Io l’ultimo del gruppo.
Insomma, non era intimorito da Strehler.
Era certamente una persona difficile, non dava confidenza, come dicevo prima, esisteva solo il lavoro; però di nascosto mi infilavo alle prove, magari seduto al buio delle ultime file o in balconata; una volta mi scoprì: “Chi c’è là sopra?”. Mi scusi, sono Sironi. “Ah, va bene. Ma devi stare in silenzio assoluto, altrimenti fuori!”. Grazie.
Ha mai provato a recitare?
Microscopici cammei come per l’omaggio a Raffaele Pennacchio.
Quando è morto.
In quel caso abbiamo chiesto ad Andrea Camilleri una piccola variazione rispetto al testo, lui ha accettato, e appaio nella scena del commissariato, quando gli diciamo addio davanti a quei cannoli siciliani che lui tanto amava. Non è proprio il mio mestiere…
Come mai?
La magia dell’attore è straordinaria e vanno protetti, rassicurati nelle loro fragilità; è necessario volergli bene, capire cosa c’è oltre l’apparenza, quando cercano di manifestarsi più estroversi e forti di quello che in realtà sono. Non ho queste attitudini, preferisco stargli accanto.
Li “guida”?
Fellini diceva: “Con gli attori il regista può fare poco”. Anche io la penso così, quindi il lavoro va svolto, bene, all’inizio, al momento della scelta.
Un esempio.
Quando ho preso Sergio Castellitto per la fiction dedicata a Coppi: l’ho visto per il provino e ho ritrovato la stessa malinconia di Fausto.
Ha conosciuto Coppi?
Sì, mio padre era suo tifoso e mi portava al Giro e ad altre corse.
Suo padre.
Gli devo tantissimo. Aveva un negozio da parrucchiere a Gallarate ed era un chiacchierone clamoroso: gran parte delle mie storie arrivano dai suoi racconti. Quando decisi di lasciare l’università fece finta di passare da Milano, guarda caso proprio da corso Magenta, lo incontrai, mi prese sotto braccio, e durante quella passeggiata mi mostrò tutti i negozi nei quali aveva lavorato.
Obiettivo?
Probabilmente rivendicare le nostre radici. Alla fine mi disse: “Provaci con il teatro, solo non aver mai paura”. Ed era il 1959. Mia mamma terrorizzata, desiderava una laurea: era il salto sociale.
A un certo punto arriva a Roma…
Solo dopo la chiusura col Piccolo: ero in cerca di lavoro e decido di trasferirmi, puntavo alla Rai, e proprio Raffaele Maiello mi presenta i dirigenti di Tv7 e ottengo la scrittura per tre soggetti.
Come si è trovato in un’altra città?
All’inizio non bene, anzi in difficoltà, non avevo capito quanto era ed è imperiale: per andare avanti è fondamentale conoscere le persone giuste, una volta appresa la lezione ho iniziato a ottenere qualcosa, come un paio di lavori tratti dai libri di Scerbanenco.
Lavori apprezzabili?
Ma no, due filmettini abbastanza fragili dal punto di vista della sceneggiatura: sono nato regista, non scrittore.
Emozionato sui primi set?
A livelli incredibili! In questo caso devo ringraziare Dante Spinotti (storico direttore della fotografia): riuscì a tranquillizzarmi, a offrirmi i primi parametri. Perché all’inizio sapevo pochissimo.
Debuttante vero.
Di più: digiuno.
Soluzione?
Bluffavo, fingevo sicurezza, lasciavo credere di conoscere il mestiere: il cinema è anche questo.
Torniamo alle difficoltà iniziali per imporsi.
In quel periodo scrivevo storie, vagavo per gli uffici con i fogliettini in mano, cercavo appuntamenti, studiavo le frasi a effetto per affascinare gli interlocutori.
E niente.
Esatto, niente. In questo mestiere è necessaria la pazienza, saper aspettare, incontrare le persone giuste e nel momento ottimale. Le variabili sono tante.
Un quadro astrale.
Incroci imprevedibili: per la fiction su Coppi inizialmente avevamo contattato Daniel Day-Lewis.
Addirittura.
Persona straordinaria, la sua struttura mentale, il livello artistico li percepisci anche dal nulla.
Solo, che…
Per “Coppi” pretendeva soltanto attori di lingua inglese, anzi attori nati nella stessa regione per non dover ascoltare inflessioni differenti. Impossibile. Alla fine sentenziai con il produttore: “Se accettiamo, poi in Italia ci ammazzano!”.
Come è arrivato a Montalbano?
Dopo “Coppi” sono rimasto fermo due anni, e senza capirne il motivo, poi nel 1997 vado a Palermo per girare Una sola debole voce e durante uno dei sopralluoghi entro in libreria, vedo la copertina del libro di Camilleri, La forma dell’acqua, lo acquisto, leggo, e ne capisco le potenzialità. A quel punto decido di convincere la fortuna ad aiutarmi.
Male non fa.
In una delle scene del film piazzo il libro edito da Sellerio in mano a un ragazzo.
Ha funzionato.
Non lo so, certo poco dopo è arrivata la telefonata; e non è la prima volta: ne Il commissario Corso ho chiamato Fausto, il figlio del protagonista, ed ecco il lavoro su Coppi.
“Corso”, altro successo…
Diego Abatantuono avrebbe preferito Il commissario Rivera in onore del suo mito milanista, invece sono interista e ho mantenuto Corso.
Scaramantico?
Su qualcosa, tipo il sale, oppure non indosso il viola, specialmente sul set, però non credo alla maledizione del gatto nero.
Montalbano all’inizio.
Ci lasciarono lavorare in totale tranquillità, in Rai erano convinti fosse un prodotto di nicchia, nessuno ipotizzava un successo del genere, quindi liberi di operare e di scegliere.
Anche rispetto agli attori.
Sì, nessuna della classiche raccomandazioni del caso, non ci puntavano un granché, poi quando la fiction è diventata importante, le telefonate interessate sono iniziate ad arrivare di continuo.
Un classico.
In questi casi la salvezza sono i provini, e da quel passaggio non sottraggo nessuno: se non funzioni, sono cacchi tuoi, anche a costo di scontri duri.
Capitati, quindi.
Flaiano è stato uno dei primi, se non il primo a teorizzare l’attitudine a salire sul carro dei vincitori (improvvisamente un piccolo sorriso). Che soddisfazioni…
In particolare?
Penso ai complimenti ricevuti da Spinotti, o quello di Rosi: “Bravo, Montalbano è realizzato benissimo”. È importante sapere che il tuo mestiere funziona, e l’amplificatore è la consapevolezza di aver trovato un linguaggio capace di varcare i confini della Sicilia prima, dell’Italia poi.
Trasmesso nel mondo.
Tra anni fa vado a Expo insieme ad Angelo Russo (Catarella nella fiction), siamo stati fermati da una famiglia di Haiti: non solo lo hanno riconosciuto, ma sapevano il suo vero nome.
Sul set alza mai la voce?
Può capitare, ogni tanto il colpo di frusta è necessario: il mio direttore della fotografia (e scoppia a ridere) dedicherebbe ai primi piani anche sette ore, e non è possibile; inoltre sui set italiani tutti parlano, mentre è fondamentale il silenzio… quando urlo e mia moglie è presente, poi mi rimprovera.
La bacchetta.
Proprio non vuole.
Vent’anni di Montalbano, oramai siete una famiglia.
Per girare passiamo insieme circa quattro mesi l’anno e da tempo siamo amici pure delle persone del luogo.
Vi ringraziano.
È reciproco, mi fa solo piacere che grazie a Montalbano abbiamo liberato dalle macchine delle meravigliose piazze barocche, e per fortuna poi ci hanno copiato tutti, il sindaco di Ragusa Ibla in testa; non solo: la Fornace Penna, una fabbrica di mattoni abbandonata a Sampieri, e più volte usata per le riprese, rischiava di scomparire sotto una speculazione edilizia…
Invece?
Il sindaco ha piazzato un cartello: “Luogo di interesse cinematografico”. Per ora è salva.
Le polemiche sui migranti.
Il tema non è una novità per Montalbano: ce ne siamo già occupati in uno dei primi episodi, e non ci si è persi in tutto questo vociare.
Il suo primo incontro con Camilleri.
Ricordo quando siamo andati a parlare del volto del protagonista, e al nome di Luca Zingaretti rimase leggermente perplesso: “Montalbano lo immaginavo più vecchio, panciuto e con i capelli ricci, alla Germi in Un maledetto imbroglio”. È andata bene…
La scelta?
Sì, ma in questo caso mi riferivo all’età dei protagonisti: ringiovanirli ci ha permesso di arrivare fino a oggi.
Si stupisce sempre del successo?
È incredibile, anche perché gli ultimi film sono più scuri e malinconici dei primi, dove abbiamo affrontato il tema della solitudine degli anziani; eppure il pubblico è innamorato e aspetta.
Anche le repliche…
Altra chiave del successo: non sono film immediati, specialmente all’inizio, quando lo spettatore doveva entrare nella storia, nel linguaggio e legarsi ai personaggi; trasmetterli più volte ha permesso alle persone di assorbire la novità.
Camilleri per lei.
Sono in imbarazzo.
Cosa è successo?
Recentemente, in una puntata da Fabio Fazio, ha inviato una lettera nella quale ci ha ringraziato. Capito? Lui dice grazie a noi! È un atteggiamento che non ho mai riscontrato in nessuno scrittore…
E la imbarazza?
Il problema è che vorrei rispondere per iscritto e ci provo da giorni, ma non riesco a trovare le parole giuste per spiegargli cosa penso di lui: ogni volta mi sembra troppo poco, non esaustivo rispetto alla sua grandezza umana e professionale. (Guarda l’orologio).
È tardi?
No, mi scusi, è che devo andare ad Assisi da mia moglie: sono impegnato nella scrittura della sceneggiatura per i prossimi episodi…