Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2019
Alla ricerca della pietra filosofale
«Sia in primavera sia in autunno, era solito trascorrere circa sei settimane nel suo laboratorio, dove il fuoco non era quasi mai spento. Era un laboratorio fornitissimo di attrezzi chimici come contenitori, storte, crogioli, ecc., di cui faceva scarso uso, a eccezione dei crogioli dove fondeva i suoi metalli. Talvolta, anche se molto di rado, consultava un vecchio libro ammuffito, penso si trattasse del De re metallica di Agricola, poiché il suo principale scopo era la trasmutazione dei metalli, per la cui realizzazione l’antimonio era un ingrediente importantissimo».
Il personaggio qui descritto non è un volgare alchimista circondato da spire di fumo che esegue futili esperimenti in uno squallido bugigattolo, come quello raffigurato nel celebre disegno di Pieter Bruegel il Vecchio, bensì uno degli scienziati più geniali ed eclettici di tutti i tempi. E a fornirci questa vivida testimonianza è Humphrey Newton che, pur non essendo suo parente, ebbe modo di conoscerlo assai da vicino. Per ben cinque anni infatti, dal 1683 al 1688, Humphrey condivise con Isaac Newton la stanza al Trinity College di Cambridge, dove fu il suo più stretto collaboratore e il fidato amanuense, tanto che trascrisse la copia dei Principia usata per la pubblicazione.
La scoperta che Newton avesse dedicato parte significativa delle proprie energie intellettuali allo studio dell’alchimia risale ormai a circa ottant’anni fa. Per la precisione al 1936, quando una serie cospicua di suoi manoscritti fu messa all’asta da Sotheby’s a Londra e rivelò improvvisamente un Newton molto diverso da quello fino ad allora noto che, di suo pugno, aveva vergato un milione di parole sull’alchimia e i suoi segreti.
La «dissonanza cognitiva» che questi manoscritti inevitabilmente suscitarono fu subito colta da John Maynard Keynes, che acquistò un’ampia porzione di essi per il King’s College di Cambridge e li usò per capovolgere il paradigma tradizionale: Newton non era stato affatto «il primo scienziato moderno, ma l’ultimo dei maghi». Un ritratto quanto mai suggestivo, destinato a esercitare un fascino notevole sui pionieri dell’alchimia newtoniana e ad alimentare poi una letteratura popolare che ha prodotto, quasi sempre purtroppo, ricostruzioni caricaturali e del tutto inverosimili.
Da quando comunque i manoscritti alchemici di Newton sono venuti alla luce, tentare di stabilirne la relazione con le sue opere in senso proprio scientifiche è stata la sfida con cui gli storici hanno dovuto continuamente cimentarsi. William R. Newman ci offre ora una nuova, documentatissima e convincente interpretazione delle ricerche alchemiche di Newton. E lo fa ripercorrendone per la prima volta tutte le tappe, dagli anni sessanta fino a quelli della piena maturità, quando non è più soltanto un celebre professore di matematica dell’università di Cambridge, ma diventa un personaggio pubblico che assume ruoli di responsabilità e di prestigio come la direzione della Zecca (1696) e la presidenza della Royal Society (1703).
Emerge così che nello stesso periodo in cui stava scoprendo la struttura nascosta dello spettro, Newton si proponeva di svelare un altro tipo di luce, denominato «fuoco segreto» (secret fire), che a suo avviso governava la crescita e il cambiamento nel mondo naturale. Un obiettivo che guidò la sua trentennale ricerca della pietra filosofale, il summum bonum dell’alchimia, del «dragone infuocato», del «leone verde» e del «vino filosofico». Ma che lo spinse anche a intraprendere il sentiero che conduce allo scettro di Giove e al bastone di Mercurio con i due serpenti attorcigliati intorno a esso per convertirlo nel prodigioso caduceo del dio messaggero.
Tutti questi esotici nomi in codice rimandano a un’estesa e ben sviluppata serie di strumenti, gli arcana majora, ossia i segreti superiori con l’aiuto dei quali gli adepti dell’alchimia speravano di trasformare la materia dal suo stato vile nell’immutabile perfezione dell’oro. Ed è innegabile, come mostra Newman, che gli innumerevoli esperimenti alchemici eseguiti da Newton andassero nella medesima direzione. Ma il suo spiccato interesse per questo tipo di ricerche non costituiva affatto un’anomalia. Figure di rilievo della rivoluzione scientifica, come Boyle e Leibniz, si dedicarono seriamente all’alchimia, nel cui ambito rientravano la produzione di farmaci, di pigmenti per la pittura, di acidi minerali e di liquori, insieme appunto al perenne tentativo di trasmutare un metallo in un altro. Le indagini chimico-alchemiche erano insomma parte integrante della normale agenda della scienza del XVII secolo.
A rendere però Newton the Alchemist davvero originale è il metodo di indagine impiegato dall’autore. È sua precisa convinzione infatti che per comprendere il significato degli esperimenti alchemici di Newton non basti analizzarli sulla carta, ma bisogna anche sporcarsi le mani con la loro effettiva replicazione. Ed è precisamente ciò che ha fatto, attenendosi alle procedure sperimentali indicate dallo stesso Newton nelle sue note di laboratorio. In questo modo, Newman fa vedere che molte espressioni apparentemente oscure si chiariscono non appena vengono individuate le specifiche proprietà che Newton attribuisce a ogni tipo di materiale, come quando, per esempio, parla di «liquore di antimonio», che chiama anche «aceto, spirito e sale di antimonio». Tutti termini interscambiabili, che si riferiscono a una soluzione di solfuro di antimonio in acqua regia, che Newman ha riprodotto in laboratorio, ricavando altre sostanze newtoniane, come il «vetriolo di Venere», un rame cristallino. A temperature relativamente basse questa sostanza è volatile e può essere usata per volatilizzare altri metalli, spiegando così perché Newton pensava di essere sulla strada che porta al successo alchemico. Egli sperava cioè di liberare il principio attivo dei metalli e di renderli più adatti alla trasmutazione.
Negli ultimi quarant’anni, grazie all’interpretazione di autorevoli studiosi come Richard Westfall, è invalsa una sorta di vulgata che si ritrova perfino nella voce di Wikipedia: l’alchimia per Newton era soprattutto una ricerca religiosa. Un tentativo cioè di riunire l’uomo con Dio, che diede un contribuito decisivo alla sua teoria della gravitazione universale e, più in generale, alla sua convinzione che esistessero forze immateriali che potevano agire a distanza. Quest’immagine, forse rassicurante, se non altro per chi vuol vedere l’alchimia di Newton come funzionale alla sua teoria della gravità, viene però respinta con energia da Newman. Per il quale invece Newton non inseguì la pietra filosofale per amore di Dio, né per amore della scienza. Newton praticò l’alchimia come un alchimista, esaltandosi «per i meravigliosi mestrui e gli spiriti volatili dei sapienti». Per quanto difficile possa essere accettarlo, «il fisico più influente prima di Einstein sognava di diventare un adepto dell’alchimia, e il gigantesco lavoro che dedicò alla trasmutazione dei metalli vili in oro parla da sé».