Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2019
Banche, l’oro nei bilanci diventa moneta
Che cosa sta succedendo sulle riserve auree mondiali? Sul mercato dell’oro c’è un clima da guerra fredda: per la prima volta in 50 anni, le banche centrali hanno comprato l’anno scorso oltre 640 tonnellate di lingotti d’oro, quasi il doppio rispetto al 2017 e il livello più elevato dal 1971, quando il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon (nella foto) chiuse l’era del Gold Standard.
Il fatto interessante è che le banche centrali europee, insieme a quelle asiatiche, sono state le più aggressive negli acquisti: paura di crisi dell’euro e di guerre valutarie?
In realtà, e questo vale soprattutto in Europa, dietro le grandi manovre sulle riserve auree non c’è solo il tradizionale scudo protettivo contro i grandi rischi: c’è anche il richiamo dell’opportunità. Un richiamo di cui pochi sembrano ancora a conoscenza, malgrado l’appuntamento sia ormai questione di poche settimane: quelle che mancano al 29 marzo del 2019. Il giorno del giudizio per la Brexit sarà anche quello dell’avvento per il mercato dell’oro.
Non è chiaro se per scelta o per caso, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, la «Banca delle banche centrali» per il suo ruolo-chiave nel sistema finanziario mondiale, ha fissato infatti per il 29 marzo un appuntamento con la storia: la resurrezione del Gold Standard nel mondo bancario. Per quasi 60 anni, il gold standard ha regolato la convertibilita tra oro e dollaro, agganciandone il valore di mercato: nel 1971 fu il presidente americano Richard Nixon, spaventato dalle pressioni ribassiste che rischiavano di affondare il dollaro in piena guera fredda, a tagliare il cordone con l’oro decretando la fine del gold standard. Ora qualcosa comincia a muoversi in direzione opposta.
Il Sole24Ore ha scoperto che tra le complesse ma ben note riforme degli standard per il credito e la finanza dal piano «Basilea 3», si nasconde un’alchimia contabile in grado di trasformare l’oro in moneta nei bilanci dei grandi gruppi bancari. Dal 29 marzo, per decisione della BRI, l’oro in portafoglio alle banche commerciali e d’affari diventa «Cash Equivalent», un asset equivalente al denaro contante e quindi «risk free». Di fatto, è la prima «rimonetizzazione dell’oro» dai tempi dell’accordo di Bretton Woods: i tecnici la chiamano «Gold Remonetization», processo inverso a quello della «demonetizzazione» dell’oro decisa da Nixon.
L’operazione della BRI, secondo quanto ricostruito dal Sole24Ore, porta la firma della FED, della BCE, della Bundesbank, della Banca d’Inghilterra e della Banca di Francia, il G-5 delle grandi potenze monetarie globali. Nel 2016, quando furono definite le nuove regole del sistema bancario inserite nel pacchetto «Basilea 3», il Comitato dei banchieri centrali ha inserito una norma di portata epocale che nessuno ha mai però discusso apertamente in pubblico. In pratica, l’oro in lingotti “fisici” – quindi non sotto la forma “sintetica” come i certificati – torna ad essere considerato dai regolatori come l’equivalente del dollaro e dell’euro in termini di sicurezza patrimoniale, eliminando così l’obbligo di ponderarne il rischio ai fini dell’assorbimento di capitale, come avviene con ogni altro asset finanziario, esclusi (per ora) i titoli di Stato dell’Eurozona. La svolta non è di poco conto, per il mercato dell’oro e per il ruolo stesso delle riserve auree nazionali. Il risultato non è di poco conto: con le nuove regole di Basilea 3, viene assegnato all’oro lo stesso status oggi riconosciuto ai Bond sovrani nei bilanci delle banche. Una domanda sorge dunque spontanea: la promozione dell’oro è forse la premessa per applicare un coefficiente di ponderazione del rischio ai Titoli di Stato posseduti dalle banche? Dalla crisi del debito, l’obietivo dei regolatori è stato infatti duplice: imporre al sistema bancario di detenere un patrimonio adeguato a coprire l’entità dei rischi. Nel mirino ci sono soprattutto i Titoli di Stato, che in base alle regole attuali possono essere detenuti dalle banche senza alcun impatto sul loro patrimonio. La questione riguarda principalmente paesi a basso rating come l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, osservati speciali dopo la crisi del debito nel 2011. Le banche di questi Paesi, sia per aumentare la redditività (carry trade) sia per agevolare l’emissione di debito pubblico nelle aste, hanno il più alto ammontare di titoli di Stato nell’eurozona. E questo fenomeno è particolarmente sentito in Italia, dove il sistema bancario possiede 400 miliardi di BTp sui 2.400 miliardi di debito pubblico. Che cosa succederebbe allora, se venisse applicata a ponderazione per il rischio sui BTP come vuole il Comitato di Basilea? Le conseguenze dipendono dal livello di ponderazione del rischio applicato sui BTP: se fosse alto, alcune banche potrebbero essere costrette a sostituire i titoli con altri asset finanziari, oro compreso, oppure a procedere ad aumenti di capitale. In un momento in cui il mercato è restio ad acquistare azioni bancarie, il rischio di ripercussioni sulla stabilità del sistema bancario potrebbe essere alto. Basta guardare i Credit default swap (l’assicurazione dal rischio di default) sulle banche italiane: secondo i dati di Bloomberg, i Cds a 5 anni di alcune tra le maggiori banche italiane hanno avuto un’impennata dalla primavera del 2018, anche triplicando in alcuni casi il valore. È in questo contesto che la data del 29 marzo si avvicina rapidamente.
I Paesi che hanno rimpatriato l’oro dall’estero riconquistandone il controllo e la gestione si sentono già al riparo dal rischio di trovarsi dopo il 29 marzo a corto d’oro fisico da mettere a disposizione delle proprie banche in caso volessero sostituirlo ai bond sovrani. Nell’arsenale del sistema, c’è un montagna d’oro da 33mila tonnellate metriche d’oro che vale 1.400 miliardi di dollari al cambio attuale. E che rappresenta il 20% di tutto l’oro estratto nel mondo in quasi 3mila anni. Come al solito, i Paesi più lungimiranti e prudenti – o forse i meglio informati sulla svolta di fine marzo, sono stati la Germania, l’Olanda, l’Austria, la Francia, la Svizzera e il Belgio, ma anche la Polonia, la Romania e l’Ungheria hanno ripreso il controllo delle riserve auree aumentandone anche la consistenza. Cina, Russia, India e Turchia sono state invece le nazioni che hanno comprato oro negli ultimi due anni più di chiunque altro, con Mosca che ha addirittura liquidato l’intero portafoglio in titoli di Stato americani per sostituirli con il metallo prezioso. Ma il problema non è questo: è sul prezzo dell’oro che i conti non tornano.
Nel 2018, ben 641 tonnellate di lingotti d’oro sono stati acquistati dalle autorità monetarie di ogni continente, ma soprattutto in Europa: è il livello più altro dal 1971. La manovra non ha precedenti e va inquadrata nel fenomeno dei rimpatri di lingotti di Stato affidati in custodia. Settemila tonnellate di riserve aure sono state ritirate dalle banche centrali dai forzieri della Federal Reserve di New York, mentre 400 tonnellate sono uscite in gran segreto dalla Banca d’Inghilterra. Negli ultimi anni, ma soprattutto nel 2018, un balzo del prezzo dell’oro sarebbe stato nell’ordine delle cose. Al contrario, l’oro ha chiuso l’anno scorso con un ribasso complessivo del 7% e un rendimento finanziario negativo. Come si spiega?
Mentre le banche centrali rastrellavano dietro le quinte lingotti d’oro “vero”, allo stesso spingevano e coordinavano l’offerta di centinaia di tonnellate di “oro sintetico” sui listini di Londra e New York, dove avviene il 90% delle contrattazioni sui metalli preziosi: l’eccesso d’offerta di derivati sull’oro serviva ovviamente per buttarne giù il prezzo, costringendo gli investitori a liquidare le posizioni per limitare le forti perdite accumulate sui futures. Così, più il prezzo dei futures scendeva più gli investitori vendevano “oro sintetico”, innescando spirali ribassiste sfruttate dalle banche centrali per comprare oro fisico a prezzi sempre più bassi. Con buona pace di chi guarda all’oro come a un rifugio sicuro. Cina, India, Russia e Turchia, ha praticamente raddoppiato le riserve auree negli ultimi cinque anni con questo sistema. Mosca, per comprare oro, ha persino venduto l’ultimo 20% di titoli di Stato americani che aveva nelle riserve valutarie.
Quanto è compatibile una situazione del genere con i doveri di correttezza e trasparenza di una banca centrale? Di sicuro, il sistema creato dai «Goldfinger» anglo-americani sembra davvero fatto apposta per gli abusi. Chissà che accadrà dopo il 29 marzo...