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 2019  febbraio 24 Domenica calendario

Pechino e i dubbi sulle nuove Vie della Seta

Ha compiuto oltre 5 anni e appare a un punto di svolta: non sono in pochi a pensare che BRI 1.0 sia vicina al capolinea, quantomeno nel senso che potrebbe lasciare il posto a una BRI 2.0 meno ambiziosa e un po’ più aperta. «Non ci dovremmo stupire che Pechino finisca per lasciar morire quietamente la Belt & Road Initiative (BRI), almeno quella che conosciamo e si può indicare come BRI 1.0», osserva Minxin Pei, Chair in Us-China Relations al Kluge Center della Libreria del Congresso. Il vastissimo progetto infrastrutturale di connettività stradale, ferroviaria, energetica e tecnologica lanciato dal presidente Xi Jinping a fine 2013 ha già subito una serie di “rebranding”, di affinamenti nella definizione: inizialmente con l’accorpamento della Silk Road Economic Belt (la via terrestre ) con la 21st Century Maritime Silk Road, poi con il passaggio di etichetta da OBOR (One Belt One Road) a BRI e l’inclusione nello statuto del Partito Comunista Cinese, fino alla “costituzionalizzazione” del suo corollario («Comunità di futuro condiviso per l’umanità»).  
Cardine della politica estera 
Più che una iniziativa economica, è diventata il cardine della politica estera cinese, in un tentativo geostrategico che – come sottolinea Peter Frankopan, professore di storia globale a Oxford e autore di libri autorevoli sulle Silk Roads – sembra rivoluzionario ma in realtà cerca un ritorno al passato, nel riesumare nel XXI secolo la centralità che avevano le Vie della Seta come principali arterie della civilizzazione del mondo. Il problema è che le opposizioni all’architettura e a varie ramificazioni del progetto si stanno intensificando, sia all’estero sia in Cina. 
Alcuni Paesi – specie dopo cambiamenti nella loro leadership – stanno rendendosi conto che le fin troppo generose offerte di capitali cinesi per grandi progetti infrastrutturali rischiano di farli entrare in una trappola del debito: dalle Maldive (dove addirittura il nuovo governo fatica a comprendere quanto debito sia stato assunto) alla Malaysia, da Myanmar allo stesso Pakistan, negli ultimi mesi si sono moltiplicate sospensioni o rinegoziazioni di iniziative già concordate, tra sospetti di corruzione e avvertenze inedite, come quella sul rischio di «neocolonialismo» lanciata dal premier malese Mahathir Mohamad. L’allarme era scattato già più di un anno fa, quando lo Sri Lanka aveva convertito parte del debito in un leasing di 99 anni del porto di Hambantota: un evento che aveva allarmato l’India e indotto alcuni analisti – come Brahma Chellaney, docente di studi strategici al Center for Policy Research di Nuova Delhi – a parlare di «imperialismo del creditore» e «schiavitù del debito», fino a tracciare un paragone con il leasing di 99 anni nei nuovi territori di Hong Kong strappato dall’Inghilterra all’agonizzante dinastia Qing nel 1898.
Poco dopo il Center for Global Development aveva identificato 8 Paesi su 68 ricettori di finanziamenti in ambito BRI come specificamente a rischio di erosione di sovranità per debito. L’accusa di tendenze neo-imperialiste era stata rilanciata dal vicepresidente Mike Pence all’ultimo vertice Apec, nel quadro delle crescenti tensioni commerciali che appaiono inserite in una più vasta sfida geostrategica tra superpotenze. Mentre il Congresso ha approvato in autunno un aumento dei finanziamenti per infrastrutture ai Paesi in via di sviluppo (sia pure limitato a 60 miliardi di dollari), l’Amministrazione ha puntato più carte sul “concept” della regione Indo-Pacific a contrasto dell’influenza cinese. Uno studio del Peterson Institute for International Economics ha evidenziato che Washington si prepara a rendere più severi (o a porre il veto) a eventuali futuri pacchetti di salvataggio finanziario del Fondo Monetario per Paesi in stress da debito legati alla BRI.«La trasparenza dovrebbe essere richiesta anche dalle agenzie di rating», sottolinea Ricardo Hausman, direttore al Center for International Development dell’Università di Harvard.
Pesa il rallentamento economico 
Sarebbe ingenuo pensare di trovare a livelli ufficiali segnali di un indebolimento dell’impegno verso la BRI di Pechino, che ad aprile replicherà il summit globale sul tema organizzato l’anno scorso. Sporadiche critiche sui social media – del tipo: perché andare a spendere altrove risorse che sarebbe meglio investire in patria? – sono prontamente cancellate dalla censura. Dietro le quinte, però, alcuni analisti individuano le prime incertezze, che si riverberano anzitutto in un depotenziamento dell’enfasi precedente. Un piccolo segnale è arrivato a Davos, dove il vicepresidente Wang Qishan ha fatto solo un fugace accenno alla BRI e nessun esponente governativo ha partecipato al relativo panel, a margine del quale alcuni imprenditori cinesi hanno ammesso una diffusa “sorpresa” per la pioggia di critiche alla presunta generosità di Pechino.
Il punto è che il periodo delle vacche grasse sembra ormai finito, nel contesto del rallentamento dell’economia cinese. «Se consideriamo l’impatto della guerra commerciale sulla bilancia dei pagamenti in futuro, la Cina difficilmente potrà generare un sufficiente surplus valutario in grado di finanziari la BRI nella stessa scala del recente passato», osserva Minxin Pei, evidenziando che il più che probabile declino dell’export verso gli Usa comporterà un deficit delle partite correnti, il che dirotterà le riserve valutarie principalmente verso la difesa del cambio. Senza contare che si profila una combinazione tra aumento delle spese pensionistiche e un deterioramento delle entrate fiscali. «È una grande esagerazione parlare di campane a morto, o di fiasco, per la BRI – afferma Nadège Rolland del National Bureau of Asian Research -.I progetti andati in stallo e le reazioni negative sono solo una parte della storia BRI. E alcuni Paesi che hanno spesso progetti stanno tornando al tavolo negoziale. Xi Jinping non pare un leader disposto a rinunciare alle sue ambizioni per qualche critica. Più probabile una correzione di rotta, non tanto sugli obiettivi ma sulle tattiche».
Nel promettere altri 60 miliardi di dollari all’Africa, Xi ha assicurato che non ci saranno «progetti di vanità», mentre l’autorità di supervisione delle imprese statali ha richiesto una «maggiore responsabilità sociale» negli investimenti all’estero. Se la BRI frena sul gigantismo, però, il suo brand-ombrello si espande e ha raggiunto negli scorsi mesi l’America Latina, dove tra l’altro Cosco ha appena comprato il 60% del terminal Chancay in Perù. «Sarebbe fuori luogo parla di crisi BRI, se non altro perché è sempre stata soprattutto un’idea, un branding efficace, un cappello molto generale e flessibile alle circostanze. E come tale più diventare più flessibile», afferma Alessia Amighini, co-direttrice dell’Osservatorio Asia presso l’Ispi, secondo cui la strategia concorrente presentata dalla Ue a ottobre sulla connettività euro-asiatica appare povera di contenuti concreti: «Sembra più un tentativo di pretendere coerenza tra i progetti europei di collegamento e completamento del mercato interno e il disegno cinese, che nella regione si è per ora focalizzato soprattutto sull’Est europeo». I numeri dell’ultimo rapporto di Euler Hermes confermano quanto sia arduo parlare di stallo per la BRI: investimenti mobilitati per 460 miliardi di dollari in 5 anni, stima di una crescita dell’interscambio tra Cina e i Paesi coinvolti di un extra 117 miliardi di dollari nel 2019. Per il senior economist per l’Asia Mahamoud Islam, restano tre le sfide da affrontare. Una è quella della «sostenibilità finanziaria, date le limitate risorse finanziarie della Cina, dove il debito totale non finanziario è salito al 253% del Pil». Poi i crescenti rischi legali e regolatori, sommati ai rischi politici. Aleggia infine l’esigenza di evitare reazioni di rigetto: per questo, un report Citigroup sostiene che la Cina sarà indotta a modificare la BRI in una versione «più gentile».