La Stampa, 24 febbraio 2019
Intervista alla pittrice Cecily Brown
Cecily Brown è una pittrice inglese. Nata a Londra nel 1969, vive e lavora a New York. Il suo stile è segnato da influenze più diverse, da Francisco de Goya, Willem de Kooning, Francis Bacon e Joan Mitchell ai maestri come Rubens e Poussin, con una visuale marcatamente femminile. La sua mostra We Didn’t Mean to Go to Sea si terrà a Napoli dal 19 marzo al 20 luglio.
Come inizia un nuovo dipinto?
«Non sto a fissare la tela vuota, inizio subito, è la parte più emozionante. Spesso butto giù un colore, senza un’idea chiara, finché comincia a suggerirmi delle forme. Dopo, metto il lavoro da parte e continuo a ritornarci, per settimane o mesi, a volte anni. Per finire un dipinto ci vogliono 3-4 mesi, ma di solito restano in studio per almeno un anno. Preferisco avviare più lavori contemporaneamente».
Per un’artista tutta energia e movimento New York è più interessante di Londra?
«Mi sono trasferita giovanissima e ho iniziato a lavorare qui. Forse è anche l’instancabile energia di New York ad alimentarmi, ma l’estate scorsa ho lavorato fuori città conservando le stesse caratteristiche».
La sua opera richiama Willem de Kooning, olandese entrato nella scuola newyorkese. Ne fa parte anche lei?
«Non credo, anche se sarebbe interessante fare una mostra di europei traslocati a New York. Chiunque cerchi di esplorare i vincoli del figurativo e dell’astratto sarà inevitabilmente attratto dai percorsi di Arshile Gorky, de Kooning e Mark Rothko».
Il suo lavoro è più figurativo o astratto, o entrambi?
«Entrambi. Cerco di insistere sul figurativo, che però sparisce durante la pittura. Quando divento troppo astratta, torno a dipinti molto figurativi. Preferisco il flusso, un processo nel divenire. La gente guarda i quadri in fretta, non è molto interessata alla pittura, volevo costringerli a fermarsi. Il significato cambia in continuazione, come la pittura».
Qual è il suo animale preferito nella pittura?
«I conigli, ma ora dipingo molti cani. Il corpo può sparire e diventare altro, più interessante perché ambiguo. L’idea viene da Bacon, ho sempre voluto dare il senso di una figura senza descriverla. È assurdo dipingere figure quando ormai tutto è stato fatto, ma voglio comunque una presenza».
Il suo strumento preferito?
«La pittura a olio è quella che mi porterei sull’isola deserta. Per disegnare preferisco una biro a sfera».
Cosa pensava dell’arte da bambina?
«Che era contemporaneamente splendida e pericolosa. Amo l’arte sconcertante, per adulti. Non tutto è adatto ai bambini».
Oggi ci sono più artiste donne?
«Ce ne sono di più professionali. L’arte è ancora per molti versi un club per soli ragazzi, io sono abbastanza un’eccezione, non ho patito il pregiudizio ma lo vedo. Ma le cose stanno cambiando».
Ha una relazione personale con i collezionisti delle sue opere come Elton John e Mario Testino?
«Ho conosciuto entrambi, ma non li definirei amici. Non sono un’eremita, ma con una figlia di 10 anni tutto cambia. Entro qualche anno potrei ritornare nel mondo, ma ho avuto la mia dose di amicizie e glamour e non me ne sento dipendente. Non mi sarei mai aspettata di guadagnare e avere popolarità. Non ho più bisogno di vendere quadri, potrei tenermeli o distruggerli, o metterli in cantina e tirarli fuori dopo cinque anni».
La sua opera è dedicata al conflitto?
«Sono sempre stata attratta da soggetti drammatici, battaglie, naufragi, guerra e conflitti. Se il quadro appare troppo liscio, lo metto in conflitto con se stesso, ma cerco di evitare una pittura dichiarativa. I Cops on the Beach del 2014, quando le donne con il burkini nel Sud della Francia furono circondate da poliziotti, sono stati un momento insolito, ma il simbolismo dell’abuso di potere non va letto in maniera troppo letterale. È un’immagine eloquente della mancanza di libertà nel mondo».
E i naufragi?
«Mi interessa dipingere la folla compressa in uno spazio. La riproduzione di un naufragio di Eugène Delacroix catturò la mia immaginazione, ne feci decine di copie. Uno dei miei problemi è che tutto deborda, mentre l’energia nervosa che cerco va contenuta. Il naufragio è incredibilmente carico, toccante, emozionante, terribile, drammatico e eterno, mare e cielo in tempesta, le linee dritte delle vele e degli alberi che si incrociano, il tormento, sono una metafora ovvia della razza umana in qualunque epoca. È una situazione estrema, e il mio lavoro è attratto dagli estremi. Ha tutto quello che vorresti da un soggetto. Continuo a dirmi “basta navi”, ma non ci riesco».
Di cosa tratta la sua mostra a Napoli?
«Non voglio anticipare troppo! Ci saranno sirene, navi che affondano e dipinti degli ultimi tre anni. La mia opera è un unico grande corpo su cui lavoro sempre, ma gli argomenti si sovrappongono, spiaggia, sirene, o streghe. Ma non so come sarà: il mio studio è molto buio e la luce napoletana potrebbe essere spietata».
La sua arte è una testimone dei nostri tempi?
«Non direi nulla di così altisonante, ma non mi spiacerebbe lo dicesse qualcun altro».
Traduzione Anna Zafesova