La Stampa, 24 febbraio 2019
L’offensiva umanitaria anti-Maduro
Una marea umana di sostenitori di Juan Guaidó e davanti a loro quattro militari chavisti, gli uni separati dagli altri solo dalla linea di confine fra Colombia e Venezuela. È il Ponte Simón Bolívar, lungo appena 300 metri, ad imporsi come il drammatico palcoscenico della sfida frontale fra libertà e dispotismo in Venezuela. Intitolato all’eroe dell’indipendenza latinoamericana e costruito sopra il fiume Táchira, il ponte separa il Venezuela dei chavisti, afflitto da miseria ed epidemie, dalla città colombiana di Cúcuta dove una miriade di Ong hanno ammassato viveri e medicinali destinati alla stremata popolazione oltrefrontiera.
Nicolas Maduro, erede politico di Hugo Chavez, decise di chiudere questo ponte al traffico a motore nel 2015 per ridurre al minimo le possibilità di contatto con la vicina Colombia - ed il resto del Continente - ma il risultato è stato opposto perché dal 2017 un fiume di migliaia di venezuelani lo ha attraversato a piedi pur di mettersi alle spalle violenze, abusi, criminalità e povertà causate dal ventennio chavista. Il Ponte Simón Bolívar si è così trasformato nella cartina tornasole della debolezza del governo autoritario di Caracas e quando Guaidó, presidente dell’Assemblea Nazionale, ha deciso di sfidarlo a nome di tutte le opposizioni ha scelto come simbolo proprio questo luogo.
L’arma del duello sono gli aiuti umanitari perché nel Venezuela stremato dalla povertà valgono più di qualsiasi altra carta: dimostrano che oltre frontiera c’è una comunità internazionale pronta a tendere la mano a Caracas a dispetto dei rifiuti di Maduro, convinto di poter resistere all’infinito contando solo sulla fedeltà assoluta di un pugno di generali, sui militari cubani e sulle promesse di Mosca e Pechino. La scelta di Guaidó di attraversare il ponte e raggiungere Cúcuta, sfidando i divieti emessi dai chavisti, dimostra l’esistenza di ampie falle nel sistema di sorveglianza che evocano gli ultimi giorni dei regimi comunisti nell’Est europeo.
Ma non è tutto, perché in attesa che si consumi l’epilogo del chavismo quanto sta avvenendo sopra ed attorno al Ponte Simón Bolívar contiene due messaggi il cui valore va ben oltre il Venezuela. Il primo ha a che vedere con la dottrina dell’ingerenza umanitaria, che debuttò nei Balcani quando il presidente Bill Clinton guidò la Nato contro la dittatura rossonera di Slobodan Milosevic, e trova ora a Caracas una nuova declinazione perché gli aiuti civili si sostituiscono ai mezzi militari, evidenziando come la maggiore vulnerabilità delle dittature è nello scontento popolare. Il secondo invece ha a che vedere con il fatto che l’offensiva delle Ong è sostenuta da una coalizione di Stati che descrive i contorni di una vasta comunità delle democrazie che va da Washington a Canberra, da Ottawa a Parigi, da Brasilia a Berlino, da Madrid a Gerusalemme fino a Buenos Aires, Praga, Tokyo e Lisbona. È la mappa di una nuova possibile geometria internazionale capace di evidenziare l’isolamento delle poche capitali autocratiche che sostengono Maduro: dall’Avana ad Ankara, da La Paz a Teheran fino a Pechino con perfino la Russia in evidente bilico. Da qui la sorpresa per la posizione dell’Italia, unica grande nazione dell’Occidente a metà strada fra Maduro e Guaidó, a dispetto anche dei forti appelli dei nostri 140 mila connazionali in Venezuela a denunciare il chavismo.