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Biografia di Angelo Del Boca raccontata da lui stesso
Certe volte, quando la luce della giornata declina, il vecchio uomo guarda dalla finestra del settimo piano: «C’è un momento in cui il riflesso della luce che piove sulla stazione sembra renderla invisibile. In quell’attimo vedo solo i treni che da Porta Susa vanno dove vogliono o dove devono andare. E io sono qui che penso ai viaggi fatti, alle persone conosciute, alle situazioni vissute: Africa, India, Israele, ma anche la Resistenza in val d’Ossola o sull’Appennino». Una stazione, penso, è anche un catalogo di emozioni, di storie in movimento, di volti che fuggono. Una sintesi che ritrovo nelle parole di Angelo Del Boca, lo storico e il giornalista che negli anni Settanta dimostrò, documenti alla mano, che in fondo non eravamo stati così buoni nelle nostre conquiste coloniali: «Se non ci fosse da piangere verrebbe da ridere al pensiero che oggi trattiamo queste ondate di disgraziati, giunti dalle coste libiche, come se ci stessero rubando la vita. Quando la vita gliela abbiamo scippata noi. Per anni Indro Montanelli si ostinò a ribadire che i miei erano solo pregiudizi, che tutto quanto avevo documentato, i gas e i morti, fosse inattendibile. Si scusò solo verso la fine della vita. E quello mi parve un bel gesto dopo tanto contrasto».
Qual è l’immagine più forte o più cara che lei conserva dell’Africa?
«Sono tante perché per anni ho vissuto con passione e partecipazione le vicende di quel continente. Ma c’è un’immagine su tutte: i tre giorni che passai a Lambaréné, nel Gabon, con il dottor Schweitzer».
Che anno era?
«Giugno 1959. Atterai con un piccolo Cesna ai bordi della foresta. Qui era venuto a seppellirsi Albert Schweitzer: alsaziano, scrittore, musicista, medico ed esperto di filosofia e teologia. Si specializzò in malattie tropicali. Neppure quarantenne abbandonò gli agi dell’Europa per curare gli indigeni. Costruì un lazzaretto e un ospedale. La sua fama si sparse nel paese. Era il “dottore bianco”. L’uomo che con tenerezza si chinava sui lebbrosi».
Che impressione le fece?
«Di un uomo fedele alla missione che si era dato. Agiva nel piccolo ma pensava in grande. Afferrandomi le mani mi disse: “Scriva che il mondo è in pericolo e che l’umanità va incontro al disastro”. Una sera lo ascoltai suonare all’organo il suo adorato Bach: “ Avevo qualche chance come musicista”, ironizzò. Fu un momento suggestivo. Quando ripartii, dalla piroga ammirai la sua figura: l’immancabile casco coloniale, le folte sopracciglia, gli enormi baffi. Alzò la mano per salutarmi. Ero commosso. Era quella l’Europa migliore».
Torneremo a parlare della “sua” Africa. Lei dove nasce?
«Sono nato a Novara, ma dal 1945 vivo qui a Torino. Durante la guerra decisi di non arruolarmi. Fuggii nel modenese da certi parenti. Nel 1943 arrestarono mio padre. Lo tennero in ostaggio, poi dissero a mia madre che la sua libertà dipendeva da me. Se avessi accettato di entrare nella Repubblica Sociale, lui si sarebbe salvato. Tornai a Novara e mi presentai al distretto. Liberarono mio padre e mi spedirono in Germania con tutta la divisione degli alpini».
A fare cosa?
«I tedeschi avevano il compito di addestrarci. Restai per sette mesi a Genzevag, nella Selva Nera. Eravamo alleati ma ci sentivamo prigionieri. Un giorno ci fu la visita di Mussolini. Ci schierarono nel cortile e lui, smagrito, con occhi febbrili e una divisa grigia che gli cascava, ci disse che era orgoglioso di noi, ci definì con enfasi i rappresentanti della nuova Italia. Avremmo combattuto contro inglesi e americani, sbaragliandoli. Al termine dell’addestramento ci ricondussero in Italia. La nostra divisione Monterosa presidiava la costa ligure con lo scopo di impedire agli americani di sbarcare».
Come passò dalla Repubblica Sociale alla lotta partigiana?
«Maturai in pochi mesi l’assurdo di quella guerra. E quando vidi il mio comandante oltraggiare e poi uccidere un prigioniero presi la decisione di disertare. Con una dozzina di soldati mi recai dove sapevo c’era un comando della brigata Garibaldi. Ma si mostrarono diffidenti, nonostante avessimo una serie di credenziali. Finì che ci separammo di nuovo. Alla ricerca di gruppi meno prevenuti. A Bobbio fummo accolti dalla brigata partigiana del settimo alpini di Aosta. La comandava Italo Londei. Col tempo divenni il suo vice».
Cosa deve a quella esperienza?
«Di solito si tende a enfatizzare. Io gli devo le cose più dure, quelle che mi hanno forgiato: le marce estenuanti, la pioggia e la neve, la fame e la paura, la vergogna e la nostalgia di casa. Ma gli devo anche l’aver conosciuto la mia prima moglie. E aver lottato per la libertà. Infine, la cosa che è irripetibile: la giovinezza».
E dell’infanzia che ricordo ha?
«Trascorse serena nel quartiere di San Rocco alla periferia di Novara. Serena almeno fino a quando i miei genitori non cominciarono a litigare. La mamma rimproverava papà di aver svenduto le terme di Crodo di cui eravamo i proprietari. Quelle fonti, non lontane da Domodossola, dove i miei nonni costruirono un albergo e un ristorante avviando una redditizia attività termale, furono letteralmente gettate via da quell’uomo strano che fu mio padre».
Strano perché?
«Portava male i suoi anni, li trascinava come fossero un peso insopportabile. Quando nacqui nel 1925, lui aveva già 47 anni. Era basso, gracile, goffo. Se veniva a prendermi a scuola lo scambiavano per il nonno. “Vecchio”, lo chiamava mia madre e se voleva insultarlo gli diceva: “Ehi, vecchio senza denti…”. Aveva da anni smesso di lavorare, questo omettino da nulla che si aggirava per casa con l’aria sperduta. Eppure, non c’era nessuno in grado di raccontare le storie come lui. Nessuno rivaleggiava con la sua fantasia. Gli perdonai la sua sprovvedutezza, ma un episodio mi inorridì, fino a trasformare l’amore in odio e disprezzo».
Cosa accadde?
«È difficile da dire. Era un giorno di marzo del 1954. Papà era ospite da me a Torino. Mia moglie si accorse di certe attenzioni morbose nei riguardi di nostra figlia piccola. Restai sconvolto. Ma non ebbi il coraggio di dire nulla. Gli preparai la valigia, buttando dentro alla rinfusa le sue cose. E lo portai alla stazione di Porta Susa, proprio qui davanti».
Provò a dirle qualcosa, a giustificarsi, a difendersi?
«Ero impietrito. Sconvolto. Non dissi nulla. Lui taceva schiacciato dalla vergogna. Salì sul treno per Novara e fu l’ultima volta che lo vidi. Per me è stata una ferita profonda. Che restò a lungo aperta in quegli anni Cinquanta in cui avevo cominciato il mio lavoro di giornalista ma anche di scrittore».
Come unì le due cose?
«Dopo la guerra pubblicai un paio di libri di narrativa per Einaudi e lavorai alla Gazzetta del Popolo. I miei punti di riferimento furono allora Elio Vittorini, Cesare Pavese e Lorenzo Gigli. Quest’ultimo curava la terza pagina della Gazzetta del Popolo. Mi propose di collaborare e poi mi assunse in redazione».
Vittorini e Pavese che parte ebbero nella sua vita?
«Importante. Vittorini era il più aperto tra i due: generoso, disinteressato. Grazie a lui collaborai al Politecnico. A volte d’estate veniva a trovarci nel Monferrato. L’uomo colto, l’intellettuale, l’autore delle Conversazioni in Sicilia si trasformava nella più semplice delle persone. Pavese era l’opposto: malinconico e introverso. Sotto un tratto burbero nascondeva la sua timidezza. Col tempo imparai ad accettarne le durezze e a rispettare i lunghi silenzi. Alcuni pomeriggi d’estate andammo in barca lungo il Po, risalendo il fiume sino a Sangone. Lo guardavo mentre con lentezza si accendeva la pipa e miope scrutava la riva. Se era in vena parlava di tutto. Ma il più delle volte preferiva tacere. La domenica di agosto in cui si uccise ci saremmo dovuti incontrare».
Cosa ha pensato della sua morte?
«Togliersi la vita mi sembrò il sugello tragico di un’esistenza troppe volte ferita e resa insopportabile dal sentirsene inadeguato».
Lei aveva già un paio di romanzi alle spalle.
«Sì ed ero smarrito all’idea che non ci fosse più Pavese. Però in quel periodo avevo mandato il mio romanzo L’anno del Giubileo a Gianfranco Contini, chiedendogli un giudizio. Mi avevano segnalato il nome di questo grandissimo critico, molto appartato, che viveva a Friburgo».
Come reagì?
«Mi rispose con una lunghissima lettera. Confesso che non mi aspettavo un’analisi così dettagliata. Era una lettera piena di elogi ma anche attenta a sottolineare i punti che al suo esame riteneva più deboli. Concluse dicendomi che avrebbe parlato con un editore di Zurigo, suo amico, per farne la traduzione. Per circa un anno e mezzo ci scambiammo varie lettere. Poi cominciai il mestiere di giornalista. Era come se con la morte di Pavese una stagione si fosse chiusa».
Contini non l’ha più sentito?
«Per quasi 40 anni non ebbi più alcun rapporto. Poi seppi che si era ritirato a Domodossola nella villa di San Quirico. Andai a trovarlo nel settembre del 1988. Vidi un uomo stanco ma ancora lucido. Faticava ad esprimersi, sembrò quasi volersi scusare per la difficoltà nell’eloquio. Mi disse che era dispiaciuto che avessi abbandonato la narrativa. Gli risposi fiaccamente che non sai mai cosa la vita ti riserva. Mi parlò per un po’ della sua di vita. Dei trascorsi nel partito d’Azione, degli anni passati in Svizzera. Mi sembrò a un certo punto affaticato. Mi congedai promettendo che sarei tornato. Avrei voluto farlo l’estate successiva. Ma nacque mia figlia Ilaria, dalla mia seconda moglie, e non andai. Contini morì l’anno dopo, nel febbraio del 1990. Provai dolore per aver mancato l’ultimo appuntamento».
Gli anni del giornalismo sono anche quelli dei grandi reportage in giro per il mondo e in particolare in Africa e a un certo punto lei si scopre storico.
«Nel 1967 lasciai la Gazzetta del Popolo. Una delle ultime inchieste che feci – prima di passare al Giorno di Italo Pietra – fu, l’anno prima, sui manicomi lager. Ricordo che visitando l’ospedale maggiore di Lucca conobbi Mario Tobino, scrittore e psichiatra, di cui divenni amico. Avevo alle spalle parecchie inchieste in giro per il mondo. Seguii a Gerusalemme il processo Eichmann nel 1961».
Ricorda la presenza di Hannah Arendt?
«Sinceramente no, ma c’erano reporter da tutto il mondo. Ricordo però Eichmann infastidito dalla folla curiosa che si accalcava. Durante l’interrogatorio notai che si mordeva il labbro. La lettura di capi di accusa prese più di un’ora, con lui rigido, in piedi, i pugni serrati e lo sguardo perso nel vuoto. Fu una requisitoria sull’orrore che il nazismo aveva prodotto. Il valore della cronaca pensai andasse irrobustito con la ricerca storica».
Tra le sue ricerche storiche spiccano i libri sul colonialismo italiano, dai quali emerge un’immagine totalmente diversa da quella che si era voluto accreditare.
«L’accusa principale che cominciai a formulare fin dal 1965 contro il regime fascista fu l’uso di armi chimiche nelle sue guerre africane. L’impiego dei gas, che era stato nascosto nei decenni successivi, e che provocò migliaia di morti tra le popolazioni, ci vedeva responsabili. Per anni sono stato attaccato, minacciato, accusato di tradimento e di aver travisato le prove. Poi col tempo tutta la verità è venuta a galla».
Il suo grande contestatore fu Indro Montanelli.
«Penso fosse in buona fede. Il suo ragionamento, semplicistico, era: sono stato in Africa, ho partecipato alla guerra, non ho visto nulla di tutto quello che Del Boca racconta. Ergo non è vero. Alla fine comprese che i documenti gli davano torto. Ammise il suo errore».
Gli errori a volte si riesce a ripararli.
«Ci vuole coraggio, oltre alla buona fede, per riconoscerli».
Quel tragico “errore” di suo padre lo ha mai perdonato?
«Non fu un errore ma un gesto senza ritorno. Capisce la differenza? Mi chiede se l’abbia perdonato. Beh, sappia che ho convissuto a lungo con quel gesto, chiedendomi perché proprio a me. Però quando anni dopo lui morì, andai al funerale. Improvvisamente cominciai a piangere a dirotto. Ero l’unico dei figli che piangeva. Un pianto sconsolato. Due immagini contrastanti affioravano: l’uomo che aveva acceso la mia fantasia e che era stato il compagno dei miei giochi e l’individuo di cui vergognarsi. In quel momento ebbi pietà di lui, della sua odiosa e torbida debolezza. Pensai tutto questo mentre la terra ricopriva la sua bara. Pensai che Dio nel quale credeva fermamente non era stato generoso con lui».