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 2019  febbraio 24 Domenica calendario

«Dopo Elena Ferrante ora scopro me stessa». Intervista a Caterina Zaccaroni

Caterina Zaccaroni è tra le più grandi scout italiane. Il suo mestiere è proporre libri ai maggiori editori internazionali. Ci accoglie a piedi nudi nella casa romana di Trastevere con la calma mistica di una sacerdotessa rock. Si siede su un divano e prima di iniziare a parlare incrocia le gambe in posizione yogica. È a Roma di passaggio, in genere vive a Milano, quando non è in giro per il mondo. Il suo curriculum è impressionante: è stata la prima ad aver capito la grandezza di Elena Ferrante, ha portato i romanzi storici di Camilleri in Germania, Montalbano in Spagna e Finlandia; Gomorra di Saviano negli Stati Uniti, segnalandolo a Farrar Straus & Giroux, primo editore straniero a comprarlo. Ora è al suo esordio narrativo: il romanzo s’intitola Vita di C.(Mondado-ri), un flusso interiore tra amori, amicizie, dolori e rinascite. Impossibile cercare di carpirle l’età: «La vita non ci sta a essere rinchiusa in griglie. I numeri non mi piacciono, non li ricordo».

Quando ha iniziato a fare la scout?
«Più di vent’anni fa, per caso. Stavo traducendo Graham Greene, mi ha chiamato un amico dicendomi che un editore tedesco cercava una scout. Il primo successo è stato La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini, edito da Piper. Poi ho portato in Germania Alessandro Baricco, da Castelli di rabbia aSeta, Simonetta Agnello Hornby, La scuola cattolica di Edoardo Albinati. Sono un ponte tra i libri e gli editori. Come dicono gli americani it takes two to tango, il tango si balla in due: a me spetta fare proposte, agli editori scegliere».
Frequenta ancora la Buchmesse di Francoforte?
«Un’atmosfera unica. In quei giorni tutti bevono e fumano in quantità industriali. Può capitare di scoprire un libro a un cocktail alle tre di notte. A volte finita la fiera ho bisogno di disintossicarmi, di leggere per puro piacere. Mi è successo con Le braci di Sándor Márai. Più andavo avanti più rivivevo la Mitteleuropa dell’infanzia. Ho convinto Piper a pubblicarlo strappandolo a Hanser».
Davvero è stata una grande amica di Salvador Dalí?
«A Parigi, mentre seguivo un corso alla Sorbonne. È stato per me come un nonno. Aveva più di settant’anni ma aveva la freschezza di un bambino. Cenavamo insieme ogni sera. Era straordinario, un po’ crudele, ma in modo inconsapevole».
Si può prevedere il successo di un libro?
«C’è sempre un lato imprevedibile. Titoli che funzionano in un paese non vanno bene in un altro. I libri seguono lo zeitgeist, lo spirito del tempo, devono uscire nel momento giusto, intercettare l’empatia collettiva. Oggi la gente vuole storie in cui identificarsi».
È vero che è stata lei a supportare all’estero i primi romanzi di Elena Ferrante?
«Per prima ho fatto tradurre in Portogallo, Spagna e Olanda L’amore molesto e I giorni dell’abbandono, edizioni Salamandra, Dom Quixote e Wereld Bibliotheek. Ma ho fallito con gli scandinavi Bonniers».
L’hanno rifiutata?
«Non era abbastanza politically correct. Troppo trasgressiva, i suoi romanzi sono un precipitato di tragedia greca, tra quelle pagine si soffre in modo plateale, perfino osceno. Con L’amica geniale è successo di nuovo. Inizialmente avevo convinto i tedeschi della Piper e della Berlin Verlag a pubblicare la quadrilogia, ma poi l’editore l’ha bocciato. È stata la mia più grande sconfitta, insieme a Gomorra, respinto sia da Piper che dall’editore francese Laffont, secondo il quale non era “ né carne né pesce”».
Non dimostrando certo fiuto... Perché scrivere un proprio romanzo?
«Ci ho messo diciassette anni a terminarlo. Scriverlo è stata una forma di meditazione. Mi ha aiutato a rimarginare ferite dell’infanzia. Sono cresciuta a Forlì in una casa fuori dal tempo. Da piccola parlavo greco e latino, suonavo il pianoforte, ma non sapevo leggere l’orologio. Un’educazione rigida; per evadere ho iniziato a viaggiare. Parlare altre lingue mi faceva sentire più libera».
Quante lingue parla?
«Cinque: italiano, tedesco, inglese, francese e spagnolo».
Si reputa una donna controcorrente?
«Sono sempre stata fuori sincronia. Quando i miei coetanei vivevano e si drogavano, io leggevo Thomas Mann o Lucrezio».
Eppure il romanzo è pieno di incontri, di eros.
«In realtà l’eros era mia madre, io di fronte a lei mi annullavo, mi ritiravo nelle letture. L’erotismo implica il rischio e io avevo paura di soffrire. Ho anche pensato al suicidio. Ci ho messo un po’ a innamorarmi del mondo. È successo malgré moi, grazie soprattutto a Father Bede, un monaco conosciuto in India».
Che cosa le ha insegnato?
«Che durante una vita si può morire e risorgere svariate volte».