Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 24 Domenica calendario

Intervista a Francis Fukuyama



Il professor Francis Fukuyama ha il dono di scatenare le controversie. A tutt’oggi non si sono ancora placate le polemiche furibonde sul testo che lo rese celebre nel mondo intero — scritto ben trent’anni fa. Il saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, la cui primissima stesura (sotto forma di articolo) precedette di pochi mesi la caduta del Muro di Berlino nel 1989, lui lo scrisse quando aveva appena 36 anni. Fukuyama vi teorizzò la prevalenza del modello occidentale cioè capitalismo più liberaldemocrazia. Il crollo dell’Unione sovietica, la conversione della Cina all’economia di mercato, il “ momento unipolare” di egemonia americana, sembrarono dargli ragione. Temporaneamente. Oggi quel testo è citato per lo più come un modello di profezia ottimistica, e smentita dall’evoluzione successiva. Lo stesso Fukuyama ha pubblicato ampie e approfondite revisioni autocritiche. Molti lo contestano anche a sproposito, senza averlo letto, fissandosi sul solo titolo e quindi sulla semplificazione estrema della sua tesi. È il prezzo del successo: da Marx a Gramsci per la sinistra, da Adam Smith a Karl Popper per la tradizione liberale, i più grandi pensatori spesso vengono criticati da chi li ha letti poco. L’ultimo libro di Fukuyama, Identità, ha già costretto una delle più autorevoli riviste americane, Foreign Affairs, a ospitare un consistente numero di recensioni ostili. Tra gli attacchi si distingue quello di una neo- celebrity della sinistra, la politica afroamericana Stacey Abrams, candidata ( sconfitta per un soffio) al ruolo di governatrice della Georgia. L’accusa che la Abrams rivolge a Fukuyama è condivisa da gran parte dell’intellighenzia progressista e si può riassumere così: lo studioso di scienze politiche fa il gioco di Donald Trump, con la sua analisi sulla “deriva identitaria” della sinistra assolve il razzismo della destra, che dell’identità etnica fa un uso ben più spregiudicato e distruttivo. Alla vigilia dell’uscita in Italia lo intervisto all’università di Stanford, in California, dove insegna.
Una delle tesi controverse di questo saggio è che la sinistra “ ha scelto di celebrare delle forme particolari d’identità, si è concentrata su gruppi sempre più piccoli e marginalizzati”, a scapito di un principio di adesione a un patrimonio di valori universali, a un’idea di cittadinanza che è il fondamento stesso della democrazia liberale. Per lei questa è un’evoluzione che viene da lontano e coincide con l’attenuarsi delle rivendicazioni economiche per le classi lavoratrici. Può approfondire cos’è accaduto alla sinistra?
« Durante gli anni Novanta sia in America che in Europa la sinistra fece la pace col capitalismo, e così facendo si staccò dalle sue tradizioni precedenti. Al punto che, retrospettivamente, è difficile vedere la differenza tra un cancelliere socialdemocratico come Gerhard Schröder e una democristiana come Angela Merkel. La definizione delle ingiustizie, che nel XX secolo guardava soprattutto alle diseguaglianze economiche e sociali, si spostò. Un grande partito della sinistra europea come il Pci aveva una base tra i lavoratori bianchi. Nell’ultima generazione invece si è guardato soprattutto agli immigrati e alle minoranze etniche come le vittime di ingiustizie. Naturalmente queste categorie sono davvero vittime di ingiustizie. E tuttavia la sinistra parlando soprattutto a loro ha perso il contatto con le vecchie classi lavoratrici. Trump ha catturato consensi tra queste; almeno quanto basta per essere presidente degli Stati Uniti. Tanti operai che avevano perso il loro lavoro, che non vivono nelle città delle due coste, e si sentono vittime della globalizzazione, si sono sentiti ignorati dalle élite benestanti».
Questo schema si sta ripetendo nella controversia sul muro col Messico? Se Trump riesce a spingere una parte della sinistra su posizioni estreme — del tipo “quando si è poveri le leggi sull’immigrazione si possono violare” — finirà per mantenere il suo zoccolo duro di consenso?
«L’immigrazione è diventato il tema centrale, lo è negli Stati Uniti come lo è in Italia per quei disperati che tentano di attraversare il Mediterraneo. Il sostegno alle posizioni moderate fra i democratici si è indebolito. Io non metto in discussione l’obbligo morale di aiutare i profughi. Questo non significa che possano varcare le frontiere tutti quelli che vogliono farlo. Bisogna controllare i flussi, è importante che ci sia una capacità d’integrazione, è essenziale che i nuovi arrivati adottino i valori della nostra società. Ma questa posizione ragionevole e centrista sta scomparendo nel dibattito politico. Voi italiani avete da un lato Matteo Salvini, dall’altro una sinistra che si radicalizza e sembra contraria a ogni limite. Ma non c’è democrazia possibile, se non sappiamo chi è, come si definisce, “il popolo” su cui si fonda questa democrazia».

Nel suo saggio, lei fa risalire agli anni Sessanta l’inizio della deriva identitaria della sinistra. In che senso?
«Il multiculturalismo che affonda le sue radici negli anni Sessanta fu motivato da ingiustizie reali. I neri che si battevano contro la segregazione e per i diritti civili, le donne in cerca di emancipazione, i gay, tutti questi movimenti partirono da vere ingiustizie e discriminazioni. Col passare del tempo però le rivendicazioni si sono evolute verso qualcosa di diverso dalla parità di diritti e di opportunità. Il concetto odierno di identità si è costruito attorno all’autostima: l’idea che abbiamo un “io” nascosto, sottovalutato o disprezzato dagli altri. Donde i sentimenti di scarsa visibilità, di rabbia, di risentimento. Una missione terapeutica si è diffusa nelle scuole, nelle università, nei servizi sociali offerti dallo Stato, per rafforzare l’autostima delle persone. Si è passati, soprattutto nel caso delle minoranze etniche e degli immigrati, all’idea che ogni gruppo deve poter rimanere incollato ai propri valori originari. Questo è un errore. Ogni nazione ha bisogno di un sistema di regole e di valori condivisi, altrimenti scivola verso un modello di tipo iracheno o siriano, cioè una collezione di identità tribali. Tra le quali diventa difficile trovare il terreno del compromesso. Infine la destra è stata abile ad applicare la stessa deriva identitaria per venire incontro alle frustrazioni dell’operaio bianco. Oggi parlare di compromesso sta diventando difficile, in America come in Italia. Ma questo è distruttivo per la politica democratica, che ha bisogno di comunicazione, discussione, comprensione reciproca, accordi con chi la pensa diversamente. La polarizzazione indebolisce le nostre società. È la debolezza che viene sfruttata da Vladimir Putin: consapevole che molti americani odiano l’altra metà dei propri connazionali, più di quanto temono la Russia».
La sinistra italiana le risponderebbe che non ha affatto una visione ristretta delle identità da difendere: si sente profondamente europeista.
«L’identità europea è una bella idea ma non è realistica, è troppo ampia. La democrazia liberale non esiste senza una coscienza nazionale, che definisca ciò che i cittadini hanno in comune. Questo naturalmente è ben diverso da ciò che la destra intende per identità: Trump sta cercando di risucchiare indietro gli americani, di riportarli a una concezione etnico-religiosa delle identità. Ma i razzisti di destra oggi prendono in prestito un discorso identitario che è stato la prerogativa di movimenti di sinistra. Quando una famiglia di religione musulmana immigrata in Occidente obbliga una figlia a rimanere a casa, o a sposare qualcuno contro la sua volontà, il cosiddetto diritto di gruppo attenta a un diritto individuale. Una democrazia liberale deve prendere posizione a favore dell’individuo e contro quella minoranza etnico-religiosa, se vuole rimanere coerente con i suoi principi».
Da dove dovrebbe ripartire secondo lei la ricostruzione di una sinistra vincente, in Italia e nel resto d’Europa?
«Dev’essere aperta a tutte le diversità, ma con un’idea chiara di cos’è una democrazia sana, fondata inevitabilmente su un senso di appartenenza a una comunità nazionale. Sull’immigrazione deve sostenere un controllo sulle frontiere, senza il quale non può esserci una democrazia. Il trattato di Schengen va ripensato: quel tipo di libera circolazione fu pilotato prevalentemente da interessi economici. L’immigrazione, come il commercio globale, può essere benefica per un’economia nazionale e al tempo stesso impoverire alcune categorie al suo interno. Inoltre bisogna sempre ricordare che l’emigrazione non è affatto benefica per i paesi di partenza. Ho trascorso periodi sufficientemente lunghi in paesi dell’Europa dell’Est, come la Romania, per vedere da vicino gli effetti nefasti della fuga dei cervelli: l’impoverimento delle nazioni. Tutte le politiche migratorie vanno ripensate».