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 2019  febbraio 24 Domenica calendario

Una, nessuna, cento Albertine

«Il nostro professore di Letteratura francese sostiene che ci sia un grave difetto filosofico, e quindi artistico, nell’intera trattazione del rapporto Marcel-Albertine. Se il lettore sa che il Narratore è omosessuale, e che le grasse guance di Albertine sono in realtà le grasse natiche di Albert, allora ha senso. Non ne ha, invece, se non si suppone, e non si richiede, che il lettore, per poter godere dell’opera d’arte fino all’ultima goccia, sia al corrente di questo o altri costumi sessuali dell’autore. Il nostro professore afferma che qualora il lettore non sappia nulla della perversione di Proust, la descrizione dettagliata di un eterosessuale che osservi con sguardo geloso una donna omosessuale non può che apparirgli ridicola, perché un uomo normale sarebbe soltanto divertito e solleticato al massimo grado dai trastulli della sua ragazza con un’altra donna. Il professore ne conclude che un romanzo apprezzabile solo da parte di quelque petite blanchisseuse che abbia esaminato la biancheria sporca dell’autore rappresenta, dal punto di vista artistico, un fallimento».
È da Nabokov che traggo questo spassoso pezzo di dialogo tra dotti liceali. In esso ci si fa beffe di un bel po’ di cose: i costumi sessuali di Proust e i patetici tentativi di dissimularli; le grandi teorie letterarie e il settarismo con cui certi professori sono soliti smerciarle; gli scrittori che ce la mettono tutta per tenere a bada quegli impiccioni dei lettori e i lettori che non resistono alla tentazione di ficcanasare nella vita degli scrittori. A dire il vero, Nabokov si fa beffe anche della plausibilità cronologica, visto che la conversazione testé citata si svolge a fine Ottocento, decenni prima che la Recherche venga concepita. Al netto di anacronismi e parodie, occorre riconoscere a Nabokov il merito di aver messo il dito su una delle piaghe della Recherche: l’essenza fluida, incerta e intermittente di Albertine Simonet, e la relazione che la legherà al Narratore fino alla fine dei suoi giorni.
The Albertine WorkoutQualcosa di analogo ha fatto la scrittrice canadese Anne Carson in The Albertine Workout. Come definire questo libretto? Per una volta (cosa rarissima) conviene fidarsi dello stringato risvolto di copertina: «Tra prosa forense e appunti di esplorazione, Anne Carson compie la sua personale ricerca di Albertine». Cinquantanove epigrammi (se ha senso chiamarli così), uno per pagina, nei quali in poco più di una riga, Anne Carson medita sull’enigma-Albertine senza la pretesa di svelarlo. L’evidenza di ogni osservazione della Carson ha il nitore di una litografia giapponese.
«Albertine, il nome, è menzionato 2.363 volte nel romanzo di Proust, più di qualsiasi altro personaggio».
«Albertine stessa è menzionata o è presente in 807 pagine del romanzo».
«In almeno il 19 per cento di queste pagine, dorme».
C’è più verità in queste succinte constatazioni statistiche che in chili di bibliografia erudita dedicata all’opera proustiana che ho avuto la disgrazia di compulsare nel corso della mia vita. Viene voglia di dare ragione a Baudelaire quando poco più che ventenne postulava la necessità di recensire un’opera d’arte con un sonetto o un’elegia.
Non a caso negli Stati Uniti The Albertine Workout è uscito nella collana «poetry pamphlet». Così come non sorprende che l’edizione italiana sia stata curata da Eleonora Marangoni: una scrittrice piena di talento che negli ultimi anni, senza avalli accademici e con squisita impertinenza, ha dedicato alla Recherche un paio di libri dal fascino sensuale e bizzarro.
È lei ad accoglierci nel mondo di Anne Carson dando voce ai mille interrogativi sollevati da Albertine. «Non si capisce bene da dove arrivi, non si sa bene dove vada a finire, non si può essere sicuri che abbia mai amato il Narratore, o cosa diavolo facesse quando non era con lui; è bruna e minuta, ma non si può nemmeno dire con esattezza come sia fatta fisicamente, i suoi occhi cambiano continuamente colore, un piccolo neo che ha sul viso continua a spostarsi dalla bocca al mento, dal mento alla palpebra e addirittura, anche dopo che è scomparsa, non siamo certi che sia morta davvero».
Cos’è AlbertineHa senso dire che Albertine, l’eroina del capolavoro romanzesco per antonomasia, non sia un personaggio riuscito? Valutandola da una prospettiva balzacchiana, o secondo severi canoni vittoriani, si sarebbe tentati di sostenerlo. C’è qualcosa in Albertine che proprio non funziona.
Sì, ma cosa?
Confesso, e nel confessarlo mi sento arrossire, che più volte mi è capitato di pensarla come il professore di Nabokov. Come può un maschio eterosessuale disperarsi tanto per le inclinazioni saffiche della sua ragazza? Sono parecchi gli uomini che saprebbero come trarre da una situazione così ambigua il giusto profitto erotico.
Ma al di là di questa morbosa considerazione che lascia il tempo che trova, resta il fatto che Albertine è un’eroina irrisolta. Lei è fuggitiva non solo perché a un certo punto scompare ma anche per la sua natura ineffabile e volubile. «La molteplicità pittorica di Albertine» scrive Carson «si evolve gradualmente in una molteplicità plastica e morale. Albertine non è un oggetto solido. Albertine è inconoscibile. Quando Marcel avvicina il volto a quello di Albertine per baciarlo, lei è dieci diverse Albertine in successione».
E dire che solitamente Proust, a dispetto di molti colleghi modernisti, ha un modo convenzionale nel costruire i personaggi. Dovendo fare il casting per la trasposizione cinematografica della Recherche, non sarebbe difficile trovare attori con i capelli rossicci di Swann o la corporatura robusta di Charlus, né attrici con la cera malsana di Odette o il naso adunco di Oriane… Ma Albertine? Dove trovare un’Albertine plausibile? È impossibile. La reticenza proustiana nel fornircene un ritratto affidabile è ostinata e implacabile. Albertine è un niente, uno scrigno vuoto da riempire di volta in volta di qualità fisiche e morali tra loro incompatibili. È atletica, sedentaria, con grandi guance; è volitiva e indolente, docile, ribelle e spregiudicata; ha un pessimo gusto musicale, sa essere sboccata ma talvolta rivela una raffinata sensibilità per le arti figurative. Se non per una zia volgare e per il gruppo di amiche, ognuna indistinguibile dall’altra, è sola al mondo, in balia del primo uomo disposto a trarla in catene.
L’amore ai tempi della RechercheNel mondo della Recherche l’oggetto d’amore è sempre un pretesto. Nelle questioni di cuore Proust conferisce un’importanza nodale all’orgoglio, all’amor proprio e alla fame di potere e di possesso: impulsi egotici che rendono impossibile la comunicazione tra gli esseri. Ci crogioliamo un po’ tutti nell’illusione romantica di essere innamorati della persona giusta. Ci piace credere che il cosiddetto «colpo di fulmine» parli la lingua del destino e della verità. Ce lo suggerisce un istinto autoprotettivo suffragato da una solida tradizione culturale. Proust non solo la pensa altrimenti ma non vede l’ora di dimostrarcelo con la cocciutaggine di un matematico in cerca del teorema definitivo.
Forse se Swann quel certo giorno, invece di perdere tempo ad amoreggiare con un’operaia, si fosse presentato in orario nel salotto Verdurin trovando Odette ad attenderlo come ogni altra sera, il suo calvario amoroso non avrebbe mai avuto luogo. Forse se l’amico che a suo tempo gliel’aveva presentata non l’avesse descritta come una donna perbene, pudica e piuttosto difficile da portare a letto – ossia se non gli avesse detto una patetica balla —, Swann non si sarebbe mai interessato a lei.
I capricci del Caso dominano i personaggi della Recherche persino più degli affondi del Tempo. Proust ritiene che a ciascuno di noi tocchi una dose di sofferenza amorosa disgiunta dall’oggetto della nostra passione. Tutto avviene in noi: lei o lui contano poco e sono perfettamente intercambiabili. «I legami tra un essere e noi» scrive Proust «non esistono che nel nostro pensiero. (…). L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé; e, se dice il contrario, mente».
Siamo tutti un ripiego«È normale allora che dovendo affrontare il grande amore della vita del Narratore – cui dedicherà ben due libri di 639 pagine nell’edizione Pléiade – Proust porti la sua idea autarchica dell’individuo a conseguenze estreme. Se è vero che più amiamo qualcuno, meno lo conosciamo, allora l’amata del Narratore dovrà essere il personaggio più ineffabile che abbia mai solcato le scene della letteratura.
E neppure questo basterà: perché funzioni, Albertine dovrà essere la quintessenza del ripiego. Ed ecco perché lei appare per la prima volta senza grandi fanfare in un bel mattino sulla spiaggia di Balbec, confusa nella combriccola di fanciulle in fiore su cui il Narratore si sdilinquisce. Anche in questo Proust è di sottigliezza spietata. Non sempre ci si innamora di un individuo specifico. Può capitare, infatti, di indirizzare il nostro interesse su una famiglia, una comunità o un gruppo di persone appartenenti a un ambiente che ci affascina. Saranno le circostanze e le opportunità a determinare la scelta che solo in seguito ci sembrerà dettata dal destino. Insomma, all’inizio Albertine è una dei tanti possibili flirt estivi.
Finite le vacanze, tornato a Parigi, il Narratore mette gli occhi su Madame de Stermaria. Parliamo di una fanciulla da un punto di vista sociale più adeguata di Albertine. Il Narratore la invita a cena al Bois. Lei prima accetta, poi gli dà buca. «Non fu lei la persona di cui mi innamorai» ricorda il Narratore «ma avrebbe potuto esserlo. E fra le cose che mi resero forse più crudele il grande amore che presto avrei avuto vi fu, ricordando quella sera, il pensiero che sarebbe stata sufficiente la modifica di alcune semplicissime circostanze perché quell’amore si posasse altrove, su Madame de Stermaria; e che, dunque, applicato a colei che subito dopo me lo ispirò, esso non era affatto – come, per altro, avrei avuto tanta voglia, tanto bisogno di credere – assolutamente necessario e predestinato».
Il grande amore cui allude il Narratore non è altri che Albertine, tornata in pista solo per alleviare il dispiacere patito e l’affronto subito da Madame de Stermaria. Il che mostra ancora una volta, occorre proprio ribadirlo, come Albertine sia la quintessenza del ripiego.
Un’immane ferociaScrive Anne Carson: «Il comportamento di Albertine nella casa di Marcel è quello di un animale domestico, che entra in ogni porta che trova aperta o si sdraia accanto al suo padrone sul letto, facendosi spazio. Marcel deve addestrare Albertine perché non entri nella sua stanza finché lui non suona il campanello». La Recherche è un’opera spietata scritta da un uomo spietato. In un certo senso, malgrado Albertine sia maggiorenne, la condizione di cattività che sconta in casa del Narratore non è diversa da quella di Lolita alla corte di Humbert. Qualcuno potrebbe obbiettare – e non a torto – che se solo volesse Albertine potrebbe spezzare le catene e affrancarsi (scelta che a un certo punto non potrà evitare di compiere); ma resta comunque il fatto che evadere dal carcere di massima sicurezza in cui il Narratore l’ha rinchiusa è davvero complicato. Poco importa che si tratti di una detenzione morale, frutto di una manipolazione che alterna il frustino del ricatto economico alla carota di vaghe promesse coniugali. Ciò che conta è che Albertine è sola, senza speranza, alla mercé di uno psicopatico il cui cinismo è così radicato da non essere neppure dissimulato. È questo a rendere necessario e ineluttabile il processo di disumanizzazione della figura di Albertine notato dalla Carson. Pian piano Albertine smette di essere una donna e diventa a seconda delle circostanze un gattino, un cane, un pappagallo, un pesce rosso. Il suo compito è di sollazzare il padrone, essergli fedele, senza incomodarlo.
Geni a confronto«Non ci sono il giusto e lo sbagliato in Proust, dice Samuel Beckett, e io gli credo».
È bello che Anne Carson citi quello che mi ostino a ritenere il più lucido e titolato esegeta dell’opera proustiana, di certo il meglio attrezzato a comprenderla. Chi lo dice che i geni non si capiscono? «Abitudini, sofferenza, noia, ricordo, bere il tè, biscotti da tè e inscrutabile banalità dell’esistenza, sono temi che Beckett e Proust hanno in comune». Ciò che Beckett capisce per primo, e meglio di tanti altri, è come ogni avvenimento nella vita del Narratore (persino le famose epifanie) non serva che a rendere evidente la consapevolezza della propria solitudine e più truce lo sconforto della perdita. In tal senso nessuna esperienza è istruttiva come la fine tragica di Albertine.
Non avendo avuto il coraggio di infliggere al Narratore la morte della madre, Proust uccide Albertine. E come nella tragedia greca la morte avviene fuori dalla scena, annunciata al Narratore e al lettore da una missiva di Madame Bontemps. Solo ricevendo la notizia dell’incidente che lo priva per sempre della sua amata, il Narratore capisce che «il mondo non è stato creato una volta per tutte per ciascuno di noi». E se mi è lecito dirlo: nella vita, non solo in quella amorosa, c’è poco altro da capire.