Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 24 Domenica calendario

Un eccesso di testosterone ha portato alla Brexit

Il nodo non risolto nel braccio di ferro con Bruxelles sta portando dritto allo scenario più temuto: quello del caos no deal, l’uscita dall’Unione Europea senza accordo. Ma com’è potuto accadere che i leader britannici si siano infilati in una situazione simile, quasi dimenticando che il confine irlandese che loro vogliono reinstaurare è stato motivo di un conflitto decennale costato migliaia di vite? «I britannici non avevano idea che il backstop (la barriera tra le due Irlande, ndr) sarebbe stato un problema, poi quando il caso si è aperto hanno cercato di minimizzare, se non negare la questione», dice Pankaj Mishra, scrittore indiano che nei suoi trascorsi da editor scoprì Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy. Autore di Age of Anger (L’età della rabbia , tradotto da Mondadori), caso editoriale negli Usa e nella stessa Gran Bretagna, per il «New York Times» uno dei libri più importanti del 2017, Mishra risponde al telefono da Londra, dove vive da 10 anni, con la moglie, inglese, e la figlia. E quando dalla cronaca degli ultimi mesi passa alle radici storiche di tale rimozione il suo tono si fa concitato: «I leader britannici credono di essere nati per governare e di non dover conoscere le persone che governano. Gli altri sono là soltanto per servire. Questa è la mentalità imperiale. Conoscono la storia come sequenza di fatti, ma sono indifferenti, impermeabili ai loro effetti e alle crisi degli altri». 
Uno schema di comportamento «egocentrico e distruttivo» tutt’altro che inedito: «Si era manifestato sette decenni fa durante la disastrosa uscita di Londra dal Subcontinente nel 1947 con la partizione tra un’India induista e un Pakistan musulmano decisa dagli inglesi senza aver mai messo piede tra le comunità divise forzatamente da quel confine. Una separazione che ha rafforzato i fanatici dai due lati della frontiera». Ma la Partizione è soltanto una delle tante linee tracciate a tavolino dai governanti britannici. Mishra ricorda la linea Durand imposta a fine Ottocento tra Afghanistan e Pakistan che divise popolazioni delle stessa etnia, i pashtun, e che da decenni avvelena i rapporti tra i due Paesi; la linea di McMahon, tra il Tibet e l’India nord-orientale; la «linea verde» disegnata a Nicosia nel 1964 per separare i quartieri greci e turchi della capitale di Cipro. Fu ideata da Londra anche la risoluzione Onu che dal 1947, al termine del Mandato britannico sulla Palestina, prevede la spartizione della regione in due Stati, uno sotto il governo ebraico, l’altro sotto il governo arabo. 

La partizione come exit strategy adottata dagli inglesi per decenni nelle colonie, con milioni di vittime e sofferenze senza fine, ora approda in casa, subìta dentro i propri confini: è la Scozia che in caso di Brexit se ne vuole andare. «I governanti britannici con la Brexit stanno assaggiando il sapore della loro stessa medicina. La rottura con la Ue sta diventando il loro ultimo atto di desolazione morale. Ora sarà la gente comune britannica a patire le ferite inflitte in passato da una classe politica incompetente a milioni di asiatici e africani». 
Una sorta di boomerang? 
«Non si può capire la Brexit se non si capisce il ruolo di questa mentalità imperiale. Essere stati a capo di un impero per secoli ha fatto consolidare nei governanti britannici questo tipo di mentalità. L’impero non c’è più, ma la loro mentalità imperiale resiste. La Brexit è la fantasia di potersi ricongiungere con le colonie e di poter riguadagnare la forza di un tempo. Questa fantasia esisteva in Germania e anche in Italia ma è stata spazzata via dalla guerra, non così in Gran Bretagna». 
Ma se questa mentalità neo imperiale è appannaggio della classe dirigente, com’è che la Brexit ha fatto breccia tra la gente comune?
«Le persone hanno votato per la Brexit mosse dall’illusione di poter stare meglio. A condurre la battaglia sono state le élite sostenute culturalmente dai tabloid britannici, che hanno fatto dell’Europa, e dei migranti, il capro espiatorio per il malessere della gente. Il fascino dei demagoghi consiste nella loro capacità di prendere il malcontento generalizzato, l’umore di chi si sente alla deriva ed economicamente instabile e trasformarlo in un piano. È quello che è successo anche negli Usa dove un super ricco come Trump è riuscito a convincere gli ultimi a votare per lui convogliando la loro rabbia verso il suo rivale. I pro Brexit hanno dirottato la colpa dalla classe dirigente britannica verso Bruxelles, facendo apparire la Ue come un sistema spietato. Questo è un espediente in atto anche in Italia». 
Ma quindi «Make Britain Great Again» è uno slogan opportunistico o si basa su una vera convinzione? 
«C’è un alto grado di opportunismo certo ma anche di convinzione». 
In «L’età della rabbia» lei identifica nel «ressentiment» di Nietzsche il filo rosso che accomuna fatti apparentemente lontani come il successo elettorale di Trump, i nazionalisti indù al potere in India, i foreign fighter dell’Isis e la stessa Brexit. Quello che viviamo oggi ha dunque radici lontane.
«Il ressentiment la miscela di rancore, odio, invidia, sentimenti di umiliazione e impotenza che fa della fase storica che stiamo vivendo “l’età della rabbia”, pericolosamente esposta alla demagogia e a nuove forme di autoritarismo e sciovinismo. Il suo luogo d’origine è la promessa annunciata nell’Illuminismo di un avvenire di giustizia, uguaglianza e prosperità che per la gran parte dell’umanità si è rivelata un’illusione se non un inganno. I “ritardatari della modernità”, cioè gli esclusi dai benefici del progresso, promessi a tutti ma riservati a una minoranza, hanno sempre reagito in modi simili: odio verso nemici inesistenti, tentativi di ricreare un’epoca d’oro immaginaria e affermazioni di sé attraverso violenze spettacolari. Fu tra loro che movimenti sovversivi e gruppi terroristici reclutarono i militanti nell’Ottocento e nel Novecento: giovani arrabbiati che diventavano nazionalisti in Germania, rivoluzionari in Russia, terroristi anarchici in Italia». 
Sul «New York Times» lei ha scritto di «continuità nella classe dirigente britannica» e la definisce incompetente. Come si tramanda l’incompetenza da Lord Mountbatten a Theresa May? 
«Con l’“amicocrazia”. Le persone vengono scelte non perché qualificate e capaci ma per la loro appartenenza a club dinastici e a circoli universitari elitari come quello di Oxford. L’ammiraglio Mountbatten, ultimo viceré dell’India britannica, descritto dallo storico inglese Andrew Roberts come “un trafficone intellettualmente limitato”, deriso come “campione del disastro” nei circoli navali inglesi, era un rappresentante di questo ristretto gruppo di uomini della middle e upper class britannica da cui furono reclutati i padroni di Asia e Africa. Molto mal equipaggiati per le loro immense responsabilità, furono tuttavia autorizzati a commettere idiozie nel mondo, “un mondo di cui non avevano alcuna concezione”, sosteneva lo scrittore inglese E. M. Forster, che accusava di fiasco politico il sistema educativo privato britannico. Questi “eterni studenti” sono stra-rappresentati tra i Tory oggi. E hanno fatto piombare il Paese nella peggiore crisi». 
Un tema presente nel libro che sta scrivendo? 
«Il mio nuovo libro The Trouble with Men. A Short History of Masculinity, in uscita nel 2020, è un resoconto del grande ruolo giocato nella politica moderna dal sogno della virilità. Idee retrò di che cosa significhi essere uomo hanno portato a una pericolosa domanda di testosterone nel mondo, dal suprematismo indù di Modi al trumpismo, a Duterte nelle Filippine. La virilità imperialista anima i fautori della Brexit». 
Lei sostiene quindi che il liberalismo sia un incubatore dell’autoritarismo?
«Sono cresciuto in un’India dove l’espressione “bene comune” aveva ancora un senso. Non ci pensavamo come individui in competizione nel mercato globale. Se vogliamo pensare a un’alternativa occorre riscoprire i valori della solidarietà, della collettività. Dopo il collasso del comunismo, si è diffusa la convinzione che la competizione individuale avrebbe portato all’ordine sociale. Invece ha prodotto soggetti vulnerabili in balia di demagoghi autoritari, l’esperimento dell’estremo individualismo è fallito, ha condotto a un vuoto morale e politico. Ognuno deve uscire dalla propria bolla e capire le esperienze degli altri».