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 2019  febbraio 23 Sabato calendario

La politica al tempo dei social non è più politica ma è solo social. Infatti non vince chi ha idee ma solo chi ha tweet

Una delle maledizioni della politica al tempo dei social è che non è più politica, è solo social: non vince chi ha idee, vince chi ha tweet; non prevale chi ha un disegno di lungo periodo, possibilmente razionale, ma chi funziona nel presente continuo della bolla televisiva. Funziona così, questo è lo spirito del tempo e non ci si può fare niente, se non analizzare in modo critico la situazione. E la situazione dice di politici che le sbagliano tutte e di uno che, per il momento, le centra tutte. C’era ad esempio l’altra sera, in una striscia di approfondimento in coda al Tg2, un confronto fra il direttore di Libero, Vittorio Feltri, e il segretario uscente del Pd, Maurizio Martina.Feltri diceva cose di efferato buon senso al limite della banalità e cioè che il punto non è l’accoglienza dei migranti in sé, ma il limite: quanti posso riceverne, a quali condizioni, secondo quali prospettive: Martina scuoteva la testa col sorrisino di compatimento, di superiorità ben noto alle latitudini parioline e capalbiesi. Ed era il liquidatore di macerie accumulate proprio sulla sciagurata non-politica degli sbarchi, dei porti aperti senza argine, del non vedere le mafie nigeriane e gli altri guai di uno struzzismo alla lunga deleterio. Lì si capiva che le tare della sinistra autoreferenziale, la spocchia, il senso di sufficienza, non sono culturali, sono cellulari: dovrebbero diventare dei pgm, politici geneticamente modificati, per guarirne.
Guasti che si riverberano su chi li vota, anzi su chi non li vota più: il povero Luca Ricolfi, che pure è un sociologo ideologicamente affine, non si stanca, vox clamantis in deserto, di denunciare vezzi rovinosi per la parte in cui, malgrado tutto, continua a riconoscersi. Non troppo diversi, benché più scomposti, i grillini: sedicenti populisti che tuttavia sono disposti a riconoscersi nel popolo solo fintanto il popolo si riconosce in loro, nelle loro ondivaghezze, nelle loro contorsioni a volte bizzarre: altrimenti il mitico popolo diventa popoulace, massa bruta, plebe da rieducare, alla quale nascondere gli arcana imperii di un potere prematuramente agguantato, ma per niente assimilato.
Da parte sua, Silvio Berlusconi, che di tutti i populismi moderni fu il papà, o il papi, irrompe in una delle sue televisioni e proclama: «Gli italiani sono andati fuori di testa, mi votano in sette su cento» Testuale. Col bell’effetto che, con tutta probabilità, una parte di quei sette residui si deciderà a mollarlo. Berlusconi ha un po’ il vezzo dei moderni conducator: ingrati, io che mi sacrifico per voi. Anche se, in verità, non se mai n’è accorto nessuno, l’ex Cavaliere piuttosto, per diretta ammissione, si è giovato molto del suo prolungato conflitto d’interessi, e, in qualche passaggio, a sacrificarsi un poco è stata, come rilevava Giovanni Sartori, la democrazia.
Rimane uno ed un solo vincitore, Salvini, chiamato dagli hardcore fan «il Capitano». La sua comunicazione, si ripete sempre, è elementare, traspirante, ruspante, oscilla tra paninazzi alla mortadella, frittatone, polentone. A volte Salvini gioca pesante, si accapiglia come in curva, attacca una animalista sulla questione dei pastori sardi e la poveretta si ritrova sommersa da minacce e insulti da caserma: un ministro dell’Interno ha una potenza mediatica che dovrebbe controllare, altrimenti sconfina nel bullismo indotto, forse non ha torto chi osserva che una figura politica ad alto livello dovrebbe limitarsi ad utilizzare i social per una pura comunicazione istituzionale: abbiamo fatto questo, abbiam deciso quello.
Ma se vogliamo restare nella prospettiva analitica, allora bisogna prendere atto che, in uno scenario in cui quasi tutti, populisti e antipopulisti, globalisti e sovranisti, sedicenti competenti e antagonisti dei competenti, sembrano non trovare il bandolo della matassa, Salvini con i suoi «ciao amici», «io non mollo», «vogliatemi bene», è l’unico che non solo capitalizza i frutti della sua comunicazione basic, ma anche quelli degli errori degli altri: ci sono, a sinistra, Twitter-dipendenti seriali all’insegna dell’arroganza di classe e della inconsistenza, che ad ogni cinguettio fanno perdere una barcata di voti. E tanto più, quando si assiste a situazioni demenziali quale quella dei migranti della Diciotti intenzionati (per conto di chi?) a chiedere allo stato italiano il risarcimento per un «rapimento» che la giunta competente ha già escluso in capo al ministro dell’Interno. Con una arroganza talmente grottesca, che non mancherà di spostare ulteriori consensi in capo a chi già sta facendo il pieno.