ItaliaOggi, 23 febbraio 2019
orsi & tori
Moda, design, cibo e vino, turismo (non sfruttato), industria meccanica fine, industria aerospaziale, energia, qualche eccellenza nel pharma, molti cervelli nella ricerca, anche quella legata al digitale, e una miriade di piccole e medie imprese fra le quali ci sono tante miniere d’oro. Se si dovesse descrivere sinteticamente la realtà economica dell’Italia, più o meno è questa. Dove la moda, il design, il cibo-vino e il turismo sono la faccia più visibile e più conosciuta del Paese. Lo si è visto anche in questi giorni di Fashion week a Milano. Traffico bloccato, migliaia di giovani asiatici per tutte le strade, limousine e van dovunque. Eppure, non è stata la migliore fashion week degli ultimi anni. Ma più per ragioni strutturali dei marchi italiani del lusso che per qualità delle sfilate. Il perdurare della crisi di Cavalli, per il quale il fondo Clessidra sta cercando un altro investitore che ricapitalizzi la società con 50 milioni, e la necessità di un intervento del fondo QuattroR per non far degenerare Trussardi, un altro marchio di piccole-medie dimensioni, danno l’idea del clima che in generale anche i marchi più forti stanno vivendo. Con una sola eccezione: Moncler.Il marchio di origine francese, rivitalizzato, trasformato e spinto verso l’alto da Remo Ruffini, ha dato una dimostrazione dell’energia che sta sprigionando con una presentazione della creatività dei dieci stilisti coinvolti nell’operazione Genius, nei magazzini di via Ferrante Aporti. Il sindaco Giuseppe Sala era lì accanto a Ruffini, che aveva qualche sembianza da imperatore, a godersi il successo (per un marchio che vive di piumini) dell’idea Genius, cioè di non avere uno stilista solo ma appunto dieci, tutti quanti in realtà accasati con altri marchi.
Il primo della fila sotto la ferrovia di Milano, sicuramente il più creativo, era Pierpaolo Piccioli che è lo stilista di Valentino. Seguivano gli altri nove. Non vi è dubbio che Moncler è il fenomeno più straordinario dell’ultimo decennio della moda italiana. Non a caso capitalizza quasi 9 miliardi, cioè una cifra enorme rispetto al fatturato, e 36 volte gli utili del 2017 (250 milioni). Di tutto ciò va reso merito oltre che a Ruffini e al suo staff (dove per il marketing ha spiccato Cristina Gnugnoli, ex Ralph Lauren), al più abile degli investitori italiani, Gianni Tamburi, che con la sua Tip e la sua conoscenza dei meccanismi di borsa ha creato le condizioni per la massima capitalizzazione possibile dai numeri di fatturato e di utile. E il segreto fondamentale di Moncler è il fatto che Ruffini, il maggior azionista, viaggia intorno al 30% e quindi la società è contendibile e sicuramente sarà contesa. Per questo, Moncler è la migliore espressione della moda italiana oggi in termini di dinamismo e di andamento borsistico ma contemporaneamente è anche il segno del limite dei marchi italiani rispetto all’evoluzione del mercato.
Basta guardare i dati degli altri brand quotati in borsa.
Storicamente quello che ha la possibilità di spiccare il volo è Prada, che dopo anni difficili sostenuti dalla sagacia di Corrado Passera e Gaetano Miccichè, allora ai vertici di Intesa Sanpaolo, era stata quotata a Hong Kong raggiungendo la capitalizzazione di ben 23 miliardi di euro. Oggi è a 7,5 miliardi. Una caduta pericolosa, anche se la coriacità toscana di Patrizio Bertelli e la capacità creativa di Miuccia Prada sono una sicurezza. Bertelli oltre che coriaceo è anche coraggioso e infatti nel momento di crescita prima della quotazione tentò la strada logica per poter diventare un player mondiale: acquisizioni di marchi come Jil Sander, Helmut Lang, Church e il tentativo di scalare Gucci. Gli andò male: con Gucci, per non rischiare, si accontentò di quella che definì «una simpatica plusvalenza», con altri marchi dovette arrivare alla vendita. Per un motivo legato non solo al temperamento ma anche alla cultura padronale, che lo faceva intervenire direttamente sullo stile e la gestione, un modo per non far valorizzare quanto il marchio stesso e il management avevano fino a quel momento espresso.
Chi è cresciuto nel 2018 come capitalizzazione è Brunello Cucinelli, che con un fatturato nel 2017 di circa 500 milioni è arrivato nel 2018 a superare i 2 miliardi. Brunello è geniale, confermando che la forza dell’Italia è il genio creativo; ha organizzato la sua attività con un forte coinvolgimento di tutti i suoi collaboratori e una filosofia che si ispira a S. Agostino e a S. Francesco. Farà sicuramente bene anche nel prossimo futuro, ma come per quasi tutti gli altri quale sarà il suo futuro? Potrà essere un polo aggregante? Difficile. Se ha dietro di sé manager di qualità, come sembra, potrà continuare a svilupparsi in autonomia ma non diventare un player fondamentale del sistema moda.
Rimangono, in grado di giocare una partita in serie A, Salvatore Ferragamo, Tods e Armani. Ferragamo ha avuto negli anni scorsi un momento magico sotto la guida di un grandissimo manager come Michele Norsa, che era arrivato a Firenze dopo la straordinaria quotazione di Valentino per conto del gruppo Marzotto. Dopo la decisione di Norsa di lasciare Firenze, due anni fa, per una vita meno stressante e per esigenze di famiglia oltre che per una non perfetta sintonia con i fratelli Ferragamo, ognuno con numerose personali attività fuori dal gruppo, Ferragamo è incappato in un ad (Eraldo Poletto) non adeguato al difficile ruolo e quindi ha perso oltre 700 milioni di capitalizzazione. Quale sarà il suo futuro? Dipenderà molto, dopo la morte della madre Wanda, da cosa decideranno i fratelli, guidati da Ferruccio. Potrebbe darsi che all’interno della grande famiglia ci siano anche talenti da poter continuare in autonomia, considerato che Ferruccio, il presidente, ha costantemente smentito la volontà di vendere, in linea con il convincimento ferreo di sua madre Wanda.
La storia di Tods (e non mi fa velo l’amicizia profonda con Diego Della Valle, essendo io anche nel consiglio della sua Fiorentina) è tutt’affatto diversa, anche se parte, come Ferragamo, dalle scarpe. Il nonno Filippo e il padre di Diego e Andrea, Doro, avevano costruito una base solida producendo scarpe per i department store americani. Diego, assieme ad Andrea ha fatto evolvere quell’attività con alcune idee geniali (i gommini), atti e amicizie con gli Agnelli e Luca Montezemolo, e con la capacità di intuire che per un pubblico solido borghese certe idee derivabili dagli Usa erano vincenti: i fermagli delle giacche dei pompieri americani trasferiti nel marchio di abbigliamento Fay e non solo. Diego ha capito prima di altri che era importante avere relazioni con il numero uno mondiale della moda, Bernard Arnault, e così quando ha quotato Tods ha risposto positivamente alla richiesta del capo di Lvmh di avere una partecipazione di circa il 5%. Ciò gli ha permesso di sedere nel consiglio del grande gruppo francese. Contemporaneamente ha partecipato a varie diversificazioni, entrando anche in consigli d’amministrazione importanti come la Banca Commerciale prima della privatizzazione. Ha fatto un ottimo guadagno su Puma e su Saks Fifth Avenue, per arrivare al colpo finale di Italo (circa 350 milioni di guadagno, incassati obtorto collo perché non voleva vendere). Tutto ciò senza perdere concentrazione sul business di Tods, anzi riuscendo a fare un’operazione magistrale comprando il marchio dismesso Roger Vivier di scarpe di lusso per la donna e portandolo a 200 milioni di euro di fatturato. Con la stessa logica di cercare marchi storici da rilanciare, ha acquistato Schiaparelli, che era diventato famoso non solo per l’alta moda ma anche per i profumi, potendo così aprire una via importante al settore che è importante per quasi tutti i grandi gruppi francesi. Per ora con Schiaparelli è andata meno bene che con Roger Vivier, a conferma che l’alta moda è un’area complessa dove è in primo luogo fondamentale lo stilista. Contemporaneamente, il settore base di Tods e di Hogan è stato attaccato dall’offensiva di Nike e Adidas, che sono riusciti a imporre la moda di scarpe sostanzialmente da ginnastica anche alle donne con abito da sera e a un prezzo da produzione industriale di grande massa, mentre soprattutto Tods punta tutto sul Made in Italy fatto a mano. I Della Valle non mollano e sono entrati, con tutti i caveat che comporta, nella logica della moda. Il titolo ha sofferto, perdendo oltre 500 milioni di capitalizzazione, ma Diego sta comprando. Questa evoluzione tuttavia ha frenato la strategia di acquisizione di altri marchi da rilanciare. Diego dice a chi lo interroga: «Noi siamo ragazzi di campagna, non vendiamo; compriamo...». Sia lui che Andrea hanno figli all’università.
Un’altra storia particolare è quella di Giorgio Armani, il capostipite del grande successo della moda italiana. Mi raccontava Vittorio Terrenghi, il fulminante, per intelligenza, commercialista che ha costituito la Giorgio Armani e ha assistito il grande stilista fino a quando Vittorio è mancato: «Il signor Giorgio non cederà mai. Gli anni non gli fanno paura...». E infatti ha rifiutato più volte le profferte di Lvmh (ricordo il corteggiamento di Arnault durante una sfilata 20 anni fa) e ha costituito una Fondazione. Come si vede, tutte storie positive, ma come del resto in generale anche nella moda, l’Italia non ha gruppi in grado di competere con i due grandi francesi e l’americano Michael Kors (oggi si chiama Capri Holdings) che recentemente ha comprato Versace per 2 miliardi. L’utile 2018 di Lvmh, 6,3 miliardi, è superiore al fatturato di tre o quattro brand italiani messi insieme. Il suo fatturato supera i 46 miliardi. Kering, grazie al grande successo di Gucci, fattura 13 miliardi e ha un utile di 3,7 miliardi, utile che supera il fatturato di Prada, il più alto degli italiani. La competizione da parte dei marchi italiani è impossibile; consola solo che il saper fare e il genio italiano consentono, anche per l’intelligenza di Arnault e dei Pinault padre e figlio, di continuare ad avere la produzione in Italia. Ma proprio per il genio e il saper fare italiano, anche dei manager (Marco Bizzarri ha portato alle stelle Gucci, e Antonio Belloni è stato ed è fondamentale per Arnault), è un peccato che non si creino due o tre colossi italiani, capaci di competere davvero a livello mondiale con i francesi.
Quei fatturati di Kering e di Lvmh non sono tuttavia solo moda, ma lusso anche nei settori affini: i vini, gli champagne, il food. E naturalmente anche alcuni italiani sono entrati in questi settori: Prada ha acquistato il marchio Marchesi e il suo negozio di Via Montenapoleone per savoir faire batte decisamente Cova, acquistato da Arnault. Recentemente, anche per diversificare a favore dei figli, Ruffini ha acquistato la serie di ristoranti Langosteria. Ma sono solo gli inizi. Eppure, fashion, food e wine vanno a braccetto.
Ci vorrebbe qualche fondo italiano che possa aiutare, ammesso che si vogliano far aiutare, i maggiori marchi italiani a crescere. L’unico che ha manifestato sensibilità verso un’idea di sostegno a brand familiari da far decollare è stato Maurizio Tamagnini, che guida il Fondo Strategico italiano di cui Cdp ha ceduto la maggioranza. Con la consulenza attiva di Norsa, il fondo ha rilevato la maggioranza di uno straordinario marchio come Missoni. Dovrebbe essere solo l’inizio, ma di fronte al prezzo offerto dalla holding americana Capri, nessun italiano, neppure Tamagnini, ha potuto rilevare Versace. Senza reticenze, chi potrebbe contribuire alla nascita di grandi gruppi italiani è Cdp, ma questo governo sta impegnando la Cassa depositi e prestiti in troppe attività. Eppure, sono la moda, il cibo e il vino che portano la bandiera italiana nel mondo e che fanno salire l’immagine di tutti i prodotti dell’export italiano, anche della meccanica, come ha ben analizzato il sottosegretario leghista al ministero dello Sviluppo economico, Michele Geraci. C’è da sperare che la sua linea si traduca in fatti.