Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 23 Sabato calendario

La dittatura delle agenzie pesa sui fondi per 13.000 miliardi

Ogni scarrafone è bello all’agenzia di rating sua. Può sembrare rude scomodare i proverbi dialettali, ma la saggezza popolare descrive bene un “vizietto” delle grandi agenzie globali di valutazione dei debiti: capita spesso che siano severe coi debiti altrui, capita meno spesso che lo siano con quelli del proprio Stato. La cinese Dagong un anno fa ha per esempio declassato gli Stati Uniti a «BBB+» (cioè appena un gradino sopra il voto che Standard & Poor’s assegna all’Italia), ma continua a considerare la Cina una «Tripla A». L’americana Moody’s assegna invece il massimo dei voti agli Stati Uniti, ma affibbia alla Cina un più modesto «A1». Cioè quattro gradini dalla vetta dei rating. Come Standard & Poor’s: l’unica agenzia di rating statunitense che ha avuto il coraggio di declassare il proprio Paese di un gradino a «AA+», assegna anch’essa una «A+» a Pechino. Lo stesso voto dell’europea Fitch. Tutte le big danno poi il massimo dei voti alla Germania. Ma non la cinese Dagong, che le assegna una «AA+».
Anche senza guardare i rating dell’Italia, appare evidente una certa difformità di valutazioni persino sui Paesi più grandi. Ma se questi possono essere considerati esempi curiosi, confinabili al massimo nella rubrica del campanilismo finanziario, in passato di motivi per mettere in dubbio l’accuratezza dei giudizi dei big del rating ce ne sono stati di ben maggiori. Perché le agenzie non hanno visto abbastanza lungo su Lehman Brothers, sulla Enron o sulla Parmalat. E soprattutto perché hanno assegnato voti troppo generosi a tutte quelle cartolarizzazioni e strumenti strutturati che nel 2007-2008 hanno causato la grande crisi globale. Da allora tanta acqua (e tante inchieste che hanno puntato il dito sui conflitti di interesse) è passata sotto i ponti, certo: le Autorità internazionali hanno partorito molte riforme relative alle agenzie di rating. Sarebbe un errore non sottolineare i passi avanti fatti in questo settore. Ma una domanda resta: perché i rating, nonostante tutto quello che è accaduto in passato, sono ancora così importanti? Perché tutti gli occhi sono puntati su agenzie che, in fondo, nei loro voti esprimono opinioni? Studiate e calibrate, certo. Ma pur sempre opinioni. Insomma: da cosa deriva il grande potere delle agenzie di rating sui mercati finanziari? Perché anche gli Stati aspettano i loro giudizi come se parlasse l’Oracolo di Delfi?
La risposta è semplice e disarmante allo stesso tempo: perché, dato che il rating è l’unico indicatore al mondo universalmente riconosciuto per descrivere il rischio di credito di un debitore, sia l’intera industria del risparmio gestito sia le banche centrali usano questo parametro. Il rating è insomma un linguaggio universale. Una sorta di “Esperanto” finanziario, che tutti – per comodità, per abitudine ma soprattutto per mancanza di alternative – parlano. È così che, nonostante le tante pecche che i rating hanno dimostrato in passato, queste pagelle hanno così tanto impatto ancora oggi: perché buona parte del mercato obbligazionario usa i rating come parametro cruciale per definire cosa si può comprare e cosa no.
E i numeri sono davvero giganteschi: secondo i dati di Morningstar, nel mondo i fondi obbligazionari gestiscono masse che a fine 2018 ammontavano a 8.457 miliardi di dollari e quelli monetari a 4.483 miliardi. Totale: quasi 13mila miliardi di dollari. Ebbene: forse non tutti, ma quasi tutti questi fondi usano il rating come parametro fondamentale per investire. Un fondo che per statuto investe in titoli «investment grade» (cioè sopra la «BBB-») non può detenere bond con una valutazione inferiore. Non è una scelta: non può proprio. Per cui quando un’impresa, uno Stato o una banca viene declassata a «junk bond» (spazzatura), tutti i fondi dedicati ai bond con rating «investment grade» sono costretti a vendere. Non nell’immediato, ma in qualche mese sì. Certo, a loro subentreranno i fondi invece specializzati in bond «spazzatura». Ma questi ultimi sono di meno. E nel travaso il mercato sbanda sempre. 
Ma non sono solo i fondi d’investimento a usare i rating come bussola. Ci sono anche le banche centrali. La Bce, per esempio, nel quantitative easing può comprare solo titoli di Stato «investment grade». Cioè che abbiano almeno tre B. Quando le banche vanno dalla Bce per chiedere finanziamenti, devono consegnare titoli in garanzia. E il valore della garanzia (dunque la quantità di denaro che la Bce eroga) dipende ancora una volta dai rating dei titoli. Per fortuna la Bce guarda quattro agenzie di valutazione e basa le sue decisioni sul rating migliore dei quattro: per cui – testimonia il tesoriere di una banca italiana – un solo declassamento a «spazzatura» non avrebbe grande impatto sulla Bce. Ma la dittatura del rating rimane. Almeno fino a quando non viene inventato un nuovo linguaggio universale.