Tuttolibri, 23 febbraio 2019
Diario di scrittura di Lidia Ravera
Fra un romanzo e l’altro , c’è un tempo lento, una pausa di silenzio che schianta le reni ai frettolosi, ai paurosi, a quelli che hanno bisogno di avere sempre un romanzo aperto, in cui far vivere donne uomini e bambini che abbiano il comune denominatore di non essere mai stati, di esseri nati dall’immaginazione, di vivere soltanto nel racconto, di essere disposti ad andare dove tu non vuoi/puoi andare. Io sono una di quelli. Frettolosa, paurosa. Non riesco ad adeguarmi alle pause. Fra un romanzo e l’altro mi sento come una condannata a vivere. E divento nervosa.
Non so aspettare l’ispirazione. «Quella particolare eccitazione della mente, della fantasia o del sentimento, che spinge l’individuo a dar vita a un’ opera» (wikipedia).
È stato così anche nella pausa fra la fine de Il terzo tempo e l’inizio di L’amore che dura.
Con Il terzo tempo avevo chiuso la trilogia sull’invecchiare (Piangi pure, Gli scaduti erano gli altri due, tutti Bompiani). Tre romanzi che, dal punto di vista della motivazione profonda, erano facili, ovvii, scontati, se è davvero «la capacità di ricevere scosse che fa di te una scrittrice» (Virginia Woolf). Quale scossa è più dolorosa e universale dell’urto del tempo che scorre sempre più rapido, riducendo la tua porzione di futuro?
Sull’invecchiare avrei potuto scrivere altri tre, di romanzi.
Avrei potuto portare la autobiografia collettiva della mia generazione dal terzo tempo al quarto e poi da lì ad un vivace memoir sull’agonia, per concludere con un sentito reportage dall’altro mondo.
Avrei potuto, ma non volevo.
Continuavo a sfornare incipit, sempre più forzosamente eleganti. Li ascoltavo suonare falsi. E andavo in giro, come faccio sempre fra un romanzo e l’altro, alternando la lagna orale (comizietti sulle mie miserie) a quella scritta (pagine e pagine a carico degli immancabili quaderni). Proprio da questa pratica, che perseguo ossessivamente da quando avevo 12 anni, mi è arrivata la salvezza,o, se preferite, l’ispirazione. Dovete sapere che la mia attività diaristica consiste in una documentata denuncia dei miei limiti, difetti, mancanze e cattive abitudini. Metto sotto la lente di ingrandimento tutto quello che non sono, tutto quello che non provo, tutte le qualità che non possiedo, tutte le infinite perfezioni a cui aspiro e mi fustigo con parole pungenti. Bene: capita che mi ritrovi, una sera, ad accusare me stessa di non aver mai sacrificato un giorno di lavoro a un amore. Improvvisamente mi sento come una che ha la mente usurata da un eccesso di stimoli e il corpo intatto di una vergine.
Mi sono mai innamorata? E poi: che cos’è l’amore? Le domande sono teoriche e non servono a niente, la sensazione invece è lì , palpabile e narrabile. Dura come il bisogno e sfuggente come il desiderio.
Mi guardo indietro, in affanno. Incontro soltanto personaggi,e lo so che i personaggi vivono di tanti piccoli furti d’identità a carico di chi hai incontrato nella tua vita, perciò contengono, tutti, la forza vitale di un essere umano, ma sono pur sempre personaggi. Gente di finzione. È un corteo scomposto che nelle notti di luna piena spunta fuori dal bosco della memoria e reclama finali diversi. Ho scritto decine di romanzi : erano tutti romanzi di disamore? Avrei potuto fondare un genere: ah, cari miei, innamorarsi è una decisione, una malattia, una cessione di sovranità... Mi sembra di risentire tutto il rosario delle definizioni che ho inventato per non essere l’unica che non ci crede.
E mi sembra urgente capire, al di là di tutte le farneticazioni razionali, qualcosa dell’amore. Il mio solo strumento di indagine è la scrittura. Nel costruire un personaggio, nel farlo pensare, agire e relazionarsi con gli altri, quasi sempre guadagno una posizione sulla via della consapevolezza, mi libero di uno stereotipo, mi metto alla prova. Quindi nascono, per darmi una mano, Emma e Carlo, che si accoppiano a 16 anni, con l’istinto fusionale di chi - per giovinezza - è ancora informe (potrebbero essere Rocco e Antonia di Porci con le ali, siamo nel 1976). Vent’ anni dopo li troviamo sposati e sull’orlo di un divorzio obbligato: i caratteri si precisano,crescendo. Emma, che insegna in una scuola di borgata, inclina verso la santità. La sua ambizione è salvare esseri umani uno per uno, visto che l’umanità intera non sta più nei progetti di nessuno. Carlo, con gli anni, ha sviluppato un’ ambizione divorante: vuole fare il cinema, la sua è una scommessa artistica, ma anche una carriera. Vuole trasferirsi a New York, dove brillano concrete occasioni. Vorrebbe partire con Emma, ma Emma non vuole annullarsi per lui, non vuole abbandonare i suoi studenti al rischio di finire in una discarica per marginali, e rifiuta di seguirlo. Tecnicamente si amano. Sono attratti l’uno dall’altra come ferro e calamita, ma non sono più disponibili a sconfinare, a rinunciare ciascuno al proprio progetto. Si rivedranno dieci anni dopo e Carlo proverà a cedere un po’ di sè per riaverla, ma lei vive ormai con un uomo che le è affine e non la mette in ansia (l’amore è per i coraggiosi), con lui ha cresciuto la sua bambina, Franny, e quello materno è l’amore più sicuramente duraturo, anche se sempre asimmetrico. Può sostituire l’amore sensuale?
Oggi - cioè nel 2016 - Carlo, che vive a New York da vent’anni, torna a Roma per presentare al festival il suo ultimo film, una love story adolescenziale che è la loro. Emma lo vede in una proiezione privata e lo stronca su una rivista on line. Carlo le chiede un appuntamento per parlarne. Più incazzato di come dovrebbe essere. Emma arriva in bicicletta, carica di una colpa veniale facile da perdonare e di una grave che non sa come confessare. Carlo è seduto fuori dal bar. Si sorridono a distanza, Emma si sente così felice di vederlo che taglia la strada a una Ford Fiesta e finisce esanime sul selciato. Una morte probabile diventa cornice e pietra di paragone, rivela e scompiglia, accusa e assolve. L’amore ne esce più robusto e nudo. Finalmente capisco che cos’è. Ma non ve lo dico.