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 2019  febbraio 23 Sabato calendario

Meglio fuggire dalle mamme. Intervista a Arnon Grunberg

Arnon Grunberg è il ragazzo terribile della letteratura olandese. Figlio di famiglia ebrea di origini tedesche (sua madre è una sopravvissuta di Auschwitz), espulso da scuola a 17 anni, per aver pubblicato un giornalino con immagini troppo piccanti. Interrompe gli studi e vuole fare l’attore. Fallisce. Quindi fonda Kasimir, una casa editrice, fallisce. Quindi si imbarca in una serie di lavori tra i più disparati: cameriere, agente immobiliare, scrittore di lettere d’amore per conto terzi, commesso di farmacia, insegnante di scacchi, gigolo, intrattenitore, impiegato. «Ero sempre in fuga», dice. Ma con velleità di scrittura. 

Un ragazzo terribile che poteva diventare un fallito a vita e invece è caduto dalla parte giusta, quando nel 1994, a 23 anni, pubblica Lunedì blu, con cui fa il botto e vince il premio per il miglior romanzo di esordio in neerlandese, diventa un bestseller e dà inizio alla carriera di scrittore di Grunberg. Tradotto in 29 lingue, ha scritto di tutto: romanzi (Dolore fantasma, Il messia ebreo, Il maestro di cerimonie, Il libero mercato dell’amore), saggi, testi teatrali, sceneggiature, per i giornali (dal New York Times alla Zeit). E ha vinto un sacco di premi, tra cui nel 2000 con Storia della mia calvizie si è aggiudicato per la seconda volta il miglior esordio (caso unico al mondo), pubblicato con lo pseudonimo di Marek van der Jagt. 
Eccentrico e contromano, mosso sempre dalla voglia di stupire, provocare ma anche sperimentare, dopo varie esperienze di prima mano come giornalista-scrittore embedded, tanto gli piace osservare da vicino le cose che si è fatto egli stesso oggetto di studio, sottoponendosi a un esperimento per misurare l’attività cerebrale durante la scrittura e capire se c’è relazione tra le emozioni provate dallo scrittore e quelle suscitate nei lettori. 
Arrivato a 47 anni, ora che tanto ragazzo non è più, rimane comunque terribile e sembra ancora in perenne fuga. A leggere il suo ultimo romanzo Terapie alternative per famiglie disperate viene il sospetto che la fuga, oltre che da se stesso, sia stata anche dalla madre, che come ogni buona ebrea (anche se come vedrete, lo nega), deve avergli condizionato parecchio l’esistenza prima di passare a miglior vita. 
E’ la storia di Otto Kadoke, psichiatra specializzato nella prevenzione dei suicidi, che per una serie di malaugurati eventi ed equivoci, deve tornare a dormire nella sua stanza di bambino per accudire l’anziana madre senza più badanti. 
Perché un libro su una relazione così stretta tra un figlio e la madre?
«Beh? La madre sarà davvero una madre?». 
Niente spoiler…
«Bene, diciamo che lo è. Tu scegli il tuo partner, scegli i tuoi amici, ma non scegli i tuoi genitori e non scegli i tuoi figli. E tuttavia, non c’è altra relazione così intensa, basata sulla dipendenza del bambino, e spesso anche basata sulla dipendenza del genitore. E poi non devi essere freudiano per riconoscere che il tabù sull’incesto esiste, perché lì c’è un vero desiderio. Non sto dicendo che tutti i figli vogliono andare a letto con la madre, ma la madre è il loro primo oggetto d’amore. E spesso è anche una dolorosa storia d’amore. Quindi, direi ci sono ragioni sufficienti per scrivere su come questa storia d’amore possa svilupparsi nel corso della vita». 
Quanto del rapporto con tua madre hai inserito nel libro? Quanto di te c’è in Kadoke?
«Ho scritto quasi venti romanzi. Ho abbandonato da un bel po’ la pura scrittura autobiografica. Per uno scrittore tutto è materiale, e probabilmente ho alcune cose in comune con Kadoke, e la madre nel libro ha certe cose in comune con mia madre. Quello che mi ha incuriosito è stata la relazione tra un adulto e sua madre che sono entrambi intrappolati in un gioco di ruolo che avrebbe dovuto fermarsi molti anni fa. Non è più un bambino e non ha bisogno di proteggerlo, ma entrambi non possono lasciare i ruoli che hanno interpretato per due o tre decenni». 
Da dove viene l’idea di uno psichiatra esperto in prevenzione di suicidi?
«Ho scritto alcuni articoli giornalistici aggregato a una squadra di emergenza psichiatrica a Rotterdam. Lì mi è venuta l’idea di Kadoke, lo psichiatra che prende il suicidio di uno di questi pazienti in maniera troppo personale». 
Sei stato anche in un reparto psichiatrico in Belgio, giusto?
«Sì, nell’estate del 2013, mi sono “ricoverato” in un reparto psichiatrico in un ospedale in Belgio, vivevo con i pazienti, cucinavo con loro, uscivo con loro. E’ stato un momento importante e ironicamente anche un periodo piuttosto felice». 
Perché non ti limiti a osservare le cose da fuori e invece hai bisogno di farti coinvolgere direttamente in esperienze così forti?
«I miei progetti “embedded”, aggregato nell’esercito olandese in Afghanistan, nell’esercito statunitense in Iraq, in un hotel in Baviera come cameriere personale, hanno in qualche modo cambiato la mia vita, hanno suscitato impressioni profonde e sono stati molto importanti per me come scrittore».
La letteratura è piena di stereotipi sulla madre ebrea… Ti definiresti il tipico figlio ebreo di una tipica madre ebrea?
«Direi di no. Sono ebreo, questo è innegabile. Ma l’identità è fluida, e non credo che esistano tipici figli ebrei. E sì, la cultura ebraica è una cultura matriarcale, come poche altre culture. Ma il tipico figlio ebreo o il tipico figlio italiano, sono cliché».
Tua madre era una sopravvissuta di Auschwitz. Ne parlava?
«Ha scritto un breve libro, “Finché ci sono le lacrime”, che è stato pubblicato poco dopo la sua morte. Ne parlava, ma in realtà, con senso dell’umorismo. Non era un ricordo condiviso, era parte della sua storia, una parte che per me e mia sorella era inavvicinabile».
Prima o poi ti piacerebbe mettere la testa a posto, sistemarti e fare figli?
«Mi piacerebbe avere un figlio. Ma non mi piace l’idea di sistemarmi. Vedremo come la mia ragazza e io risolveremo questo dilemma».
Hai scritto sul tuo sito web che la tua routine di lavoro inizia alle 8 /8.30 del mattino quando vai a letto alle 7 del mattino. Cosa fai quando vai a letto alle 7?
«Sul serio? Questo è un errore. Di solito vado a letto all’una e mi piace fare un pisolino, tra mezz’ora e trenta minuti tra le due e le tre del pomeriggio».
E’ vero che ascolti sempre musica quando scrivi?
«Solo quando lavoro su un romanzo. E’ una questione di concentrazione. Mi aiuta a concentrarmi rapidamente sul lavoro e a tornare all’umore in cui ho concluso il lavoro il giorno prima. Ricorda che vivo a Manhattan, il mio appartamento può essere rumoroso”.
Cambi o è sempre la stessa, tipo un mantra?
«Ogni libro una musica diversa. Ho scritto questo libro ascoltando un sacco di Schubert».
Hai scritto che non condividi quasi nessuna opinione. Hai un’opinione su questa affermazione?
«Ah, ah! Non mi piace essere prevenuto. Ovviamente ho delle opinioni, ma posso parlarti senza giudicarti, per essere veramente interessato a un’altra persona è necessario non avere pregiudizi e posporre l’opinione». 
Quindi che opinione ti sei fatto della vita, della morte, dell’amore… dei temi forti che tratti anche in questo romanzo?
«So che cosa mi aspetto dalla letteratura, non è un caso che scriva i libri che scrivo. Ma quello che pensiamo oggi non deve essere quello che pensiamo tra dieci anni. Lottiamo, falliamo, falliamo di nuovo e, si spera, falliamo meglio, parafrasando Beckett». 
La letteratura aiuta?
«Cerchiamo un significato e arriviamo a strategie diverse per raggiungere il significato. La letteratura è molto brava a mostrare queste strategie e l’errore di molte di queste strategie. Sii aperto, interessato ed educato, qualsiasi incontro con uno sconosciuto può cambiarti la vita. Non permettere a te stesso di rimanere bloccato, soprattutto se hai tutte le possibilità di non rimanere bloccato. Ma se sei bloccato, non per questo ti giudicherò».
Su cosa stai lavorando?
«Un nuovo romanzo, il sequel di Terapie alternative per famiglie disperate. E un paio di reportage sull’amore negli Stati Uniti. L’anno scorso ne ho fatto uno su Dio negli Stati Uniti e questa estate, spero, sarò «aggregato» a un circo».