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 2019  febbraio 23 Sabato calendario

Demografia e migranti, l’Italia spreca il capitale umano

L’Italia ha due saldi fortemente negativi: quello demografico (più morti che nati) e quello migratorio (più emigranti che immigrati). Il primo è una tendenza recente ma ormai stabilizzata perché già nel 1995 eravamo il Paese con la più bassa natalità al mondo. Il secondo è un fenomeno antico, ma è ritornato d’attualità negli ultimi anni. Solo che oggi, per la prima volta, queste due tendenze si sommano, provocando un corto circuito drammatico. 
Ma c’è un rapporto di causa/effetto tra questi fenomeni? Siamo costretti a emigrare perché «gli immigrati ci portano via il lavoro»? Sarebbe facile se fosse così: ma vale solo per pochissimi. Per i più, se non ci fosse immigrazione, l’emigrazione ci sarebbe comunque. Perché chi parte, nella stragrande maggioranza dei casi, cerca lavori diversi da quelli che trova chi arriva (che peraltro sono in numero minore: l’anno scorso, meno della metà di chi è partito). La piccola percentuale che rimarrebbe è dunque solo quella senza titoli di studio e senza qualificazione: che è stata effettivamente danneggiata dal dumping sociale prodotto da immigrati disposti ad accettare salari più bassi.
Gli stranieri sono occupati soprattutto in settori non qualificati: colf e badanti; braccianti agricoli (soprattutto stagionali); manodopera non specializzata in edilizia, manifattura a basso valore aggiunto e servizi; logistica (che è il nome chic per intendere chi scarica le merci nei magazzini e guida i mezzi di trasporto). Tutti lavori che i nostri giovani diplomati e laureati (quasi l’80% del totale) per lo più non farebbero: ciò spiega in parte i Neet (not in education, employment and training: i giovani che non lavorano né studiano) e molto l’emigrazione. C’è dunque un gigantesco problema di mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro, a sua volta dovuto a una certa arretratezza (maggiore di quella che ci piace pensare) di alcuni settori del mercato del lavoro (ciò spiega perché la percentuale di laureati sia il 18,7%, ma tra gli «expat» salga a quasi il 30%). E di questo dovremmo parlare, più che di immigrazione. Ma, per la politica, sarebbe più scomodo, perché richiede impegno e competenze: molto più facile scaricare su un capro espiatorio.
All’interno di questa situazione c’è poi un doppio paradosso, che produce un enorme spreco di capitale umano. Da un lato, molti stranieri svolgono lavori meno qualificati rispetto al titolo di studio che possiedono. Dall’altro, molti italiani emigrati finiscono per ritrovarsi nella stessa situazione: a svolgere, a Berlino o a Londra, lavori che in Italia non accetterebbero. Giustificati da una attrattiva culturale più che strettamente economica: l’essere in luoghi interessanti, con maggiori potenzialità di mobilità sociale, lontani dal controllo parentale, ecc. Ciò spiega il curioso fenomeno per cui, per alcuni di essi, le rimesse, che di solito accompagnano l’emigrazione e arricchiscono il paese di provenienza, spesso viaggiano al contrario: dalle famiglie in Italia ai loro figli all’estero, che per fasi più o meno lunghe non ce la fanno a mantenersi. Un dato che dice più sull’arretratezza culturale o la poca appetibilità delle zone di provenienza che sull’immigrazione.