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 2019  febbraio 23 Sabato calendario

A Manbij, la Berlino del Medio Oriente

Abo di Sajor vuol dire «figlio di Sajor», il fiume che definisce il confine tra il Nord-Ovest siriano e la Turchia. Abo di Sajor è il nome di battaglia del comandante curdo che presidia la postazione della frontiera settentrionale della città di Manbij, ultimo avamposto prima del territorio controllato da Ankara. Un tratto lungo circa dieci chilometri oltre il quale si vedono, nitide, le bandiere rosse con la mezzaluna bianca. «Al di là del fiume ci sono le truppe turche - dice il 28 enne comandante -, sono pronte ad attaccarci».
Sulla sponda siriana, accanto ai vessilli delle Forze democratiche della Siria, le formazioni miste curde, arabo sunnite e cristiane impegnate nella guerra contro lo Stato islamico e Al Nusra, è la bandiera a stelle e strisce a dominare sulla vallata del Sajor. È li che sorge una delle principali basi americane dislocate in Siria. 
La presenza statunitense è annunciata dal via vai di blindati militari e jeep di contractor - soldati privati ingaggiati dal Pentagono - che percorrono nei due sensi la strada per Kobane, cuore del Rojava. Manbij è un città di circa 500 mila abitanti, tra arabi, curdi e turcomanni, non lontana dalla diga dell’Eufrate e dal lago Assad. È una delle zone più contese della Siria, crocevia di interessi e mire interne e internazionali come dimostra la coesistenza delle Unità di protezione popolare curde (Ypg), dei loro alleati delle Forze democratiche della Siria (FdS), ma anche dei governativi di Damasco e degli eserciti di Stati Uniti, Turchia e Russia. La Berlino del Medio Oriente, viene soprannominata, spartita in settori di influenza definiti da check point, come lo era la capitale tedesca durante la Guerra Fredda. E con una fervida attività delle cellule jihadiste pronte a compiere attentati contro obiettivi militari, senza risparmiare la popolazione civile. 
La minaccia di Erdogan
A Manbij ora è il «sultano» di Turchia la principale minaccia percepita, come spiega Abu di Sajor nella sua postazione alla frontiera Nord dove nei mesi passati ci sono stati scontri a fuoco con i turchi. Il timore è che si ripeta la mattanza di Afrin, la città vicina a Manbij dove le forze di Ankara lo scorso anno si sono infilate nel conflitto siriano attaccando i curdi (definiti terroristi dai turchi) facendo terra bruciata con il fuoco di droni e i caccia. 
È per questo che Washington ha ordinato il rafforzamento del contingente americano in questa parte del Paese, per creare un cuscinetto tra le due sponde del Sajor. «I militari Usa pattugliano con i curdi al di qua del fiume - dice il comandante -. Al di là fanno lo stesso con i turchi». Grazie agli americani gli scontri a fuoco sono diminuiti, ma la minaccia è viva. Cosa ne pensa del ritiro annunciato da Donald Trump? «A questo punto ho fiducia solo in me stesso e nei miei soldati», dice Abo, spiegando di essere in grado di tener testa ad una eventuale avanzata da parte delle truppe di Erdogan. «Purché i turchi combattano senza l’aiuto di nessuno», afferma il comandante facendo intendere che complice della mattanza di Afrin è stato il silenzio della Nato. 
L’appello alla Nato
«Ankara è un Paese dell’Alleanza, i droni e gli aerei che ha utilizzato contro la nostra gente sono quelli dell’Alleanza, la stessa di cui l’Italia, l’America e altri Paesi fanno parte». L’appello alle responsabilità della Nato è una liturgia ripetuta anche da Jamal Abu Jamal, comandante delle forze di sicurezza municipale «Albab», nella zona di Al Arimah, porzione Ovest di Manbij, settore di influenza russo-governativo. Qui le formazioni miste di curdi e arabi sunniti gestiscono la sicurezza dell’area in coordinamento con le truppe di Damasco e unità dell’esercito di Mosca di cui è testimone lo sventolio di bandiere siriane e russe. 
La zona cuscinetto
Le forze armate di Vladimir Putin hanno stabilito un’altra «buffer-zone», una zona cuscinetto, su un secondo tratto di confine con la Turchia. «Sono arrivati due mesi fa, con loro e con l’esercito di Assad facciamo pattugliamenti congiunti, abbiamo un coordinamento continuo», spiega Abu Jamal. Dietro a lui, in piedi, c’è un giovanissimo soldato, è il figlio ci sussurrano, sembra vegliare sulla sicurezza del padre che ascolta come un mantra. Gli americani non andranno via del tutto, siete meno allarmati o fate più affidamento sui russi? «Non contiamo su nessuno», dice il comandante, poi volge lo sguardo verso il figlio-soldato. La sua ruvidezza è un invito a riflettere sull’intricato crocevia di Manbij, la Berlino del Medio Oriente, prossimo teatro dell’ennesimo capitolo del risiko siriano dove si definiranno i confini del nuovo ordine regionale.«Noi - chiosa - ci fidiamo di noi stessi, voi, piuttosto, che siete nella Nato, vi fidate di un alleato come la Turchia?».