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 2019  febbraio 23 Sabato calendario

I moti dei comunardi antenati del gilet gialli

Non dobbiamo impressionarci troppo per le manifestazioni, spesso violente, dei gilets jaunes che paralizzano i sabati di Parigi. La città ha vissuto ben altro, superando difficoltà ben maggiori. E anche se la nostra mente corre subito alla presa della Bastiglia, il 14 Luglio 1789, pochi ricordano che le devastazioni più gravi furono provocate da una rivolta assai più vasta e sanguinosa. Quella della Comune, nella primavera del 1871.
La Francia aveva malamente perduto la guerra con i Prussiani. Napoleone III era stato fatto prigioniero, e l’intera armata di Bazaine si era arresa a Metz quasi senza sparare un colpo. Il governo di Thiers, un intellettuale moderato nelle sue idee e risoluto nella loro attuazione, aveva firmato una pace che a molti sembrò disonorevole. I parigini insorsero, e costituirono un governo autonomo: appunto, la Comune.
Sulle prime sembrò che si trattasse di un’iniziativa esclusivamente politica: ma presto, come tutte le rivoluzioni, assunse un carattere militare. I comunardi si impossessarono dei cannoni dell’esercito regolare, e pretesero di continuare da soli la guerra con i prussiani. Pour encourager les autres, fucilarono sommariamente due generali tra una folla sempre più eccitata che si diede ai saccheggi. Naturalmente Thiers rispose con gli interessi. Scatenò contro Parigi, ormai in mano a gruppi di anarchici, marxisti, blanquisti, e agitatori professionali le sue truppe ricostituite, con il consenso dei vincitori occupanti, dopo il disastro della guerra.
LE VIOLENZE
In città le violenze aumentarono. Gruppi di incendiarie les petroleuses appiccavano il fuoco dove capitava. I versagliesi, cioè i soldati del governo legittimo accampato a Versailles, diedero l ’assalto alla città. Gli assediati risposero prendendo qua e là vari ostaggi, ritenuti controrivoluzionari, minacciando di sterminarli se l’attacco fosse continuato. Thiers naturalmente diede l’ordine di avanzare. Le sue truppe, essenzialmente provenienti dalla profonda provincia che detestava i corrotti e prepotenti parigini, procedettero con una disciplinata spietatezza: ogni giovane era sospetto, e ogni sospetto era ammazzato. Le donne, gli anziani, e chi aveva avuto la grazia di esser risparmiato, furono catturati per essere evacuati. I primi prigionieri iniziarono la lunga marcia di trasferimento a Versailles, guardati a vista dal generale Gaillefet, tanto valoroso in battaglia quanto crudele nella repressione. Di in tanto in tanto l’inflessibile ufficiale si fermava, e faceva fucilare indifferentemente uomini e donne, giovani e anziani: questi ultimi erano i più odiati, in quanto possibili partecipi dei moti del 30 o del 48.

LE CRUDELTÀ
Nella zona ancora occupata, i comunardi risposero per le rime, massacrando gli ostaggi, preferibilmente preti, compreso il Vescovo. Le donne si distinsero per le crudeltà più atroci, gratuite e volgari, confermando – disse un osservatore inglese l’opinione di Voltaire, che le popolane parigine fossero metà tigri e metà scimmie. Alla fine bruciarono alcuni tra i monumenti più antichi e preziosi, come les Tuileries e l’Hotel de Ville. Il pittore Courbet diresse personalmente l’operazione più stupida e miserabile: l’abbattimento della colonna di Place Vendôme, a sua tempo eretta con il bronzo dei cannoni catturati ad Austerlitz. 
Intanto i prussiani, accampati attorno alla città, avevano chiuso ogni via di fuga. Non intendevano partecipare a quella che consideravano una resa dei conti fra nemici, ma non nascondevano il compiacimento per la determinazione che Thiers dimostrava verso i rossi e i sovversivi. Una determinazione, che, con l’aumentare delle rappresaglie reciproche, diventò sistematico eccidio. Come un rullo compressore, i versagliesi strinsero i rivoltosi all’estremità nordorientale di Parigi, finchè li isolarono all’interno del Père Lachaise, il suo monumentale cimitero. Qui sferrarono l’assalto finale. Di notte, tra le tombe di illustri poeti, musicisti e scienziati, gli uomini si affrontarono alla baionetta, in corpo a corpo furibondi e in un’atmosfera surreale. Alla fine, i pochi superstiti tra i federati furono ammassati lungo il muro che porta ancora il loro nome, e fucilati sbrigativamente. Lì finirono i combattimenti e cominciò la repressione.

IL BILANCIO
Thiers decise di bonificare una volta per tutte la zona tra Belleville e Menilmontant – che dai tempi dellla Rivoluzione aveva ospitato la parte più turbolenta della populace. Agì in fretta, e senza pietà. I numeri delle vittime furono successivamente esagerati dalle sinistre e contestati dalle destre: in effetti nessuno saprà mai con precisione quanti furono gli assassinati, i giustiziati e i deportati. In tutto, certamente più di cinquantamila, dieci volte più di quelle del Terrore di Robespierre. Ed anche se quei quartieri mantennero – e in parte mantengono ancora – il carattere rude e proletario della vecchia Parigi, non si risollevarono più dall’epurazione e non si sollevarono più nella rivolta. Questa si sarebbe ripresentata, con caratteri ben più elitari e meno cruenti cento anni dopo nel quartier latino, tra gli universitari benestanti e i loro cattivi maestri. 

LA PACIFICAZIONE
 Parigi accolse con sollievo l’ingresso delle truppe regolari. Il sangue versato, le distruzioni subite e la fame sofferta chiedevano una rapida pacificazione. Questa arrivò anche prima del previsto. In pochi anni, la città ritornò ad esser il centro del mondo politico, artistico e culturale, rallegrata dal bel vivere che diede il nome a un’epoca. La vita sociale riprese attorno alle nuove salonnières, e madame de Caillavet, assistita da Anatole France, emulava degnamente le leggendarie Marie Du Deffand e Julie de Lespinasse, ispirando Proust e la sua corposa ricerca del passato. Con l’avvento dell’elettricità, Parigi acquistò il titolo di Ville lumière – che già aveva meritato in senso metaforico con Voltaire e Diderot – mentre Montmartre e Montparnasse partorivano le innovazioni degli impressionisti e gli esperimenti di Picasso. «Chi non ha vissuto a Parigi durante quegli anni – disse qualcuno – non ha conosciuto l’arte di vivere». Forse i sopravvissuti della Comune non erano dello stesso parere. Ma in compenso, dopo la dura esperienza, avevano appreso la massima di Rivarol, che ogni rivoluzione non è altro che l’inutile e sanguinosa prefazione di un libro mai scritto.