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 2019  febbraio 23 Sabato calendario

Intervista a Gianni Amelio

Fanciulli dal colletto inamidato, ragazzini senza scarpe e senza denti. Lavagne nella polvere e sotto il sole, aule incastonate nell’architettura fascista, ricchi istituti svizzero napoletani. L’insegnamento di Don Milani, le canzoni di Gaber, i pensieri di Pasolini. Il primo alunno ha 91 anni e impara a scrivere per mandare lettere ai figli emigrati in America, gli ultimi sono un’istantanea della scuola multiculturale di oggi. È una storia d’Italia lunga 150 anni Registro di classe, il documentario in due parti di Gianni Amelio fatto con le immagini dell’Istituto Luce ( in onda su Rai 1 il 10 marzo nello speciale TG1). Il regista si prende una pausa dalla preparazione diHammamet, il film segreto sulla figura di Craxi con Pierfrancesco Favino. L’attore ha raccontato: « Avevo 18 anni quando ci fu il lancio delle monetine al Raphael.
Avevo il diritto di pensare che come individuo avrei potuto cambiare le cose. Sono venuti meno la fiducia nelle ideologie, il senso di appartenenza. Qualcuno si tolse la vita per non andare in carcere e perdere la reputazione: dopo non è stata più un valore. Ora siamo in balia delle promesse non mantenute». Oggi però Amelio, ex alunno ed ex insegnante, vuole parlare solo di scuola. «Nel film c’è una scena che mi riguarda. Un maestro bolognese va a insegnare in Lucania e non comprende il dialetto. "Impariamo a parlare l’italiano?", propone. E un alunno: "professò, noi siamo dodici e voi uno, non fate prima voi a imparare il dialetto nostro?". Una logica figlia dell’innocenza degli alunni della scuola di allora, che non era solo un’istituzione. Ci si andava volentieri anche quando si prendevano le bacchettate. Tua madre e tuo padre erano analfabeti e tu facevi un passo enorme».
Lei è stato un docente.
«Sì. A 17 anni, uscito dal classico, mi ero iscritto a Filosofia e fatto domande di supplenza. All’alba prendevo il bus e andavo nei paesi di Calabria. Ricordo l’ansia del primo giorno. Per prendere tempo do ai ragazzi un tema sulla città che vorrebbero vedere. Tutti scrivono di Roma e del Vaticano. Uno consegna subito il tema: "Non mi interessa se la città è bella o brutta, io voglio andare a Torino. Perché lì c’è mio fratello che lavora". È l’unico a cui metto 10, per la sincerità. Questa cosa mi ha convinto che forse era quella la mia professione. Poi, non so perché, ho fatto il regista».
Che alunno è stato?
«Il primo giorno, al primo banco della seconda fila, dalla porta aperta vedo mia madre che va a raccogliere la cicoria. Mi metto a urlare per andare da lei. Mi prendo le prime bacchettate. Poi mi sono appassionato, non ho mai fatto assenze. Alle medie andavo con la corriera in un paese vicino, alle sei ero davanti a scuola. La bidella, impietosita, apriva la porta e mi faceva un braciere».
I professori erano un punto di riferimento per le famiglie.
«Se tuo figlio andava male dicevi al maestro: "sia severo". Oggi: "come osa mettere tre a mio figlio". La storia della scuola italiana è anche la storia del degrado culturale italiano. Questo è l’amaro riassunto che possiamo ricavare dalla visione dei due film. Si nota la decadenza persino nel modo di lavorare dei giornalisti tv: immagini d’archivio sciatte, domande a caso. La scuola è stata soppiantata dal pragmatismo criminale "ma che studi a fare". Io studiavo, nella povertà e i miei erano orgogliosi».
Senza la scuola dove sarebbe?
«Sarei un delinquente. In Calabria la delinquenza non latita. Si rischia di diventare delinquenti ogni volta che non ci si accosta a qualcosa che ti migliora. Ci si chiede a che serve Iliade. È il poema dell’esistenza. L’ho studiata in seconda media in una lingua straniera: l’italiano non lo parlavo».
La funzione della scuola oggi?
«La percezione è malata e fa sì che venga abbandonata. Oggi insegnare nella scuola dell’obbligo ti fa venire paura. Leggi fatti agghiaccianti di professoresse denudate e filmate, di pugni ai docenti. Gridano vendetta, come tante altre di questi tempi».
E c’è il caso di Foligno e il bimbo messo all’angolo.
«Tutto si lega: un anno fa questa storia non sarebbe stata possibile. Quello è un imbecille, ma le vere crisi politiche si svelano attraverso gli atti di imbecillità che si sommano, dando la fotografia di un popolo di pecoroni, razzista. Seguirò il caso di questo signore per capire se se la cava».
La barriera della lingua e l’isolamento di allora sono quelli che provano gli immigrati oggi.
«Le mie nipotine sono nate in Italia da un padre albanese, mio figlio, e una madre polacca. Sono l’esempio vero di multi nazionalità, di una possibilità di convivenza».
Cosa deve insegnare oggi la scuola?
«Una scuola che insegna i saperi moderni è inutile, le mie nipotine a dodici anni mi riparano il pc. Bisogna insegnare loro quello che si finge di dimenticare. Dal fascismo in poi la cultura è vista come qualcosa che intralcia l’azione. Si taglia ciò che sembra che ti prepari alla vita e non alla battaglia. Oggi vogliono far diventare tutto battaglia, il lavoro, la vita comune.
Senza la mia avventura albanese io non sarei la persona felice che sono. Non vedo come una minoranza che arriva con un passato di dolore possa cambiare le sorti di questo sporco paese per renderlo ancora più sporco».
Sta per raccontare al cinema una delle nostre figure politiche più controverse, Bettino Craxi.
«È un film per me importante e molto delicato. Ci lavoro da tanto tempo. Tra un mese inizierò le riprese. Ma ne parleremo quando sarà il momento».
Cosa la colpisce oggi di quella figura?
«Tutti mi hanno cercato per sapere come affronterò questo film. È la dimostrazione, malgrado siano passati tanti anni, che si tratta di una questione non risolta di questo paese».