Corriere della Sera, 22 febbraio 2019
Non si può nazionalizzare la Banca d’Italia
Gli appelli ormai sono incessanti. «Riportiamo l’istituto in mano pubblica», oppure «chiariamo la proprietà delle riserve auree». Una proposta di legge dopo l’altra, il mondo politico sembra sempre più attento alla Banca d’Italia e al suo patrimonio di lingotti e monete d’oro. Qualcosa del genere è successo di recente anche a Berlino, quando certi deputati si erano messi in testa di rimpatriare l’oro della Bundesbank depositato nei caveau della Federal Reserve di New York per metterlo «al sicuro». Poi in Germania l’isteria è passata. In Italia invece potrebbe facilitare la discussione un’occhiata al sito della stessa Banca d’Italia e alla Gazzetta Ufficiale. Si capirebbe che l’istituto è già in mano pubblica e che la proprietà delle riserve è già chiara: sono dello Stato, cioè degli italiani. Lo sono già. Il fatto che 124 fra banche, enti e compagnie assicuratrici detengano quote ha a che fare con i loro diritti economici, non con il controllo dell’istituto o delle sue riserve da quasi mille miliardi di euro. Basta vedere la ripartizione dei dividendi. Nel 2017, ultimo anno disponibile, Banca d’Italia ha distribuito l’86,39% dell’utile netto dalla gestione delle riserve allo Stato. Cioè agli italiani, che hanno incassato da Via Nazionale 3,3 miliardi di dividendo e 1,5 miliardi in imposte. A banche, assicurazioni e altri detentori di «quote» è andato invece solo il 5,6% dell’utile, cioè 218 milioni. Quindici volte meno, perché i loro diritti di voto e accesso agli utili sono fortemente ridotti. Banca d’Italia è e resta (articolo 4, comma 1 decreto legge 133 del 2013) un ente di diritto pubblico, come tale ha dunque funzioni di interesse generale ed è sottoposto a forme di influenza pubblica. La Banca d’Italia, il suo oro e le sue riserve sono già di tutti gli italiani, che ne godono i frutti. A meno che oggi non si miri a garantire l’appannaggio non agli italiani, ma al governo. Sarebbe un’altra storia.