Corriere della Sera, 22 febbraio 2019
In Svezia, dove il 90% dei papà resta a casa quando nasce un figlio
È come un piccolo avamposto, dipinto di rosso, circondato da cumuli di neve e avvolto dagli alberi. Dentro, le voci di quattro uomini che cantano. Ma non siamo in un rifugio per cacciatori sul circolo polare, siamo nel cuore di Stoccolma. E quelli che intonano la ballata di Pippi Calzelunghe sono padri di famiglia con i figli accovacciati tra le gambe. All’«asilo aperto» Skånegatan, nel bel quartiere di Södermalm, la mattina è «daddy time». Lo è nei fatti, non da programma. «A volte arrivano anche in venti, tutti padri – dice Jesse Holm, il pedagogista – non so nemmeno dove metterli».
In Svezia, lo Stato garantisce congedi parentali lunghi più di un anno, pagati all’80% dello stipendio e divisi abbastanza bene tra genitori. Merito delle «quote», che riservano a ogni componente della coppia almeno tre mesi. Chi non li prende, li perde e, se è un papà, rischia di perdere anche la faccia. Ma capita a pochissimi: le statistiche dicono che nove padri su dieci usano il congedo (in Italia sono due) per una media di 3 mesi e 19 giorni (in Italia questo numero non viene nemmeno calcolato). Tutto questo al netto dei 10 giorni di paternità a ridosso della nascita, concessi a ogni lavoratore. È un sistema raffinato in 40 anni, che oggi assicura alla Svezia contemporaneamente alti tassi di fertilità e livelli stratosferici di occupazione femminile, oltre a benefici di ogni genere per bambini e genitori. Gli studi e le ricerche fioccano più fitti della neve d’inverno: ce n’è addirittura uno che quantifica in un 7% l’aumento medio di stipendio di una donna per ogni mese di congedo preso dal marito.
Dietro ai record ti aspetti di scoprire i recordman. Invece le cifre da primato nascondono storie commoventi nella loro caparbia e quotidiana normalità. Thomas Lindman Flores, piccolo imprenditore edile, non voleva ripetere gli errori del padre: «L’azienda è sua, quando ero piccolo non c’era mai. Altri tempi, non ce l’ho con lui. Ma per me è molto diverso». Thomas lavora da mesi solo un giorno alla settimana e negli altri è in congedo con sua figlia Evita. Chi ha bimbi piccoli sa che la qualità del tempo condiviso non basta: serve quantità. E per organizzare la quantità tornano utili capacità matematiche. Olof Klugman, redattore in un settimanale, ha da poco avuto i suoi primi due gemelli. In questo caso i giorni concessi dallo Stato alla coppia lievitano (da 480 a 660) e i genitori possono stare a casa insieme per quattro mesi invece che uno. «Allora, seguimi: ora siamo in congedo io e mia moglie da novembre, tra poco torno a lavorare un giorno la settimana, poi quattro mesi part time e infine altri sei mesi papà a tempo pieno». Il meccanismo garantisce enorme flessibilità.
Il vero veterano è un suo collega, Andreas Vinaccia, un ex triatleta di origine italiana. «Ho gareggiato per qualche anno con i Carabinieri ma per mettere su famiglia sono tornato in Svezia». Ora i trofei stanno in cima a un armadio dove nessuno dei cinque figli può arrivare, lui è al quinto congedo. «Sono passato dal triathlon al pentathlon», sorride tra una lavastoviglie e l’altra. Fatti i conti, nella sua vita ha impiegato quasi tre anni ad occuparsi esclusivamente dei bambini. «Se ho perso qualche chance al lavoro? Forse, ma per quello c’è tempo, ho ancora 30 anni davanti prima della pensione: il tempo che ho passato con i miei figli non me lo toglierà mai nessuno».
Per molte aziende, soprattutto le piccole, è ancora un problema adattarsi al via vai dei dipendenti genitori. Eppure gli studi dicono che l’onda sta portando con sé anche loro. La percentuale delle imprese che incoraggia i congedi si è impennata. Quasi tutti i contratti collettivi di lavoro portano la compensazione dello stipendio ben oltre l’80%. Molte società, soprattutto nel settore tecnologicamente più avanzato, arrivano al 100. È il caso di Spotify, che da Stoccolma ha conquistato il mondo della musica in streaming ed elenca sul suo sito tutti i benefici di un corretto work-life balance. C’è addirittura chi può permettersi di ribaltare i pesi del potere contrattuale. Olle Wessel, lavora in una società di software. Terminerà a luglio gli 8 mesi che ha scelto di dedicare a Tilde: «Nessuno mi ha dato problemi: in caso contrario avrei cambiato società, conosco il mio valore di mercato e sui figli non posso certo accettare condizioni». Un mondo capovolto. «Ma per altri è proprio la pausa del congedo a funzionare come un sabbatico: tanti rimettono in discussione il proprio percorso, decidono di cambiare lavoro o di mettersi in proprio», aggiunge Johan Bavman, un fotografo che ha passato 16 mesi a ritrarre papà come lui e ha portato la mostra Swedish dads in 50 Paesi.
C’è voluto tempo per arrivare a tutto questo. «Negli anni successivi a quando il congedo fu introdotto, pochissimi padri partecipavano», ricorda Ann-Zofie Duvander, demografa della Stockholm University. Alla fine degli anni Settanta la Försäkingskassan, l’equivalente dell’Inps svedese, reclutò addirittura un gigantesco campione di sollevamento pesi noto alle cronache come «Hoa Hoa», dal verso che emetteva durante lo sforzo delle gare, per impersonare un padre che va a prendere il figlio all’asilo, in una campagna a tappeto di spot televisivi e manifesti. «Se non si vergogna lui, puoi farcela anche tu, papà», era il messaggio. Ma non funzionò granché. Quello che ha dato la svolta sono state le «quote» riservate a ogni genitore. «A ogni incremento abbiamo visto un bel salto nella partecipazione degli uomini», ragiona Niklas Löfgren, il portavoce dell’agenzia, che ha sede nella vecchia fabbrica dei telefonini Eriksson. Oggi le quote continuano ad animare un po’ il dibattito, c’è chi teme che l’avanzata della destra possa metterle in pericolo, ma nessuno toccherebbe l’impianto generale del congedo: «È come un patrimonio nazionale».
Nessuno mi ha dato problemi per
il congedo, altrimenti avrei cambiato società Conosco il mio valore di mercato e non posso accettare compromessi sui figli
Anzi, la sensazione è che la locomotiva abbia guadagnato ormai velocità: si vuole arrivare al traguardo vero, una parità totale. Al 2018, sul numero complessivo dei giorni di congedo, il 30% è preso dai padri. In Europa è un primato assoluto. Ma per la Svezia «siamo ancora sotto il limite della vergogna», per citare di nuovo Löfgren. Secondo Anna Thoursie, capo economista del maggiore sindacato dei manager, Ledarna, «il tema è serissimo, le donne sono tuttora percepite come lavoratrici più rischiose e quindi penalizzate». La soluzione: «Il congedo deve essere diviso per legge al 50%, ognuno deve fare la sua parte fino in fondo».
L’afflato verso l’equilibrio perfetto secondo alcuni affonda le sue basi in un attitudine, il Logom, che predica il giusto mezzo in ogni cosa. Ma il pilastro sociopolitico dell’impianto svedese è un altro: l’indipendenza totale dell’individuo. «È la teoria svedese dell’amore – spiega Erik Gandini, il regista che ha fatto un film omonimo di cui in Svezia si è discusso tanto – È stato un vero e proprio progetto politico e dice che ogni relazione deve essere basata sulla libera scelta e l’autonomia, soprattutto economica. Non fa una piega. Però, tirata all’eccesso, l’idea ha portato anche a un’idea di autosufficienza degli individui forse eccessiva». Cosa c’entra con i congedi parentali? «I congedi sono sacrosanti, come pure il fatto che il progetto figli qui duri 19-20 anni al massimo. Dopo, ognuno per la sua strada. C’è molta maturità in questo. Però tra le persone prevale anche un lasciarsi in pace che può portare alla solitudine, il vero problema di questo Paese».
È un punto importante. Ma molti la vedono diversamente. Gli attivisti di MÅN, una grossa ong che è il nodo svedese della campagna globale per la paternità responsabile Men Care, ribaltano il ragionamento. «È verissimo che la solitudine è un problema, qui il suicidio è la prima causa di morte per gli uomini tra i 50 e i 55 anni – spiega il responsabile Nathan Hamelberg —. Però noi lavoriamo con i padri e i futuri padri proprio per spiegare loro quanto la cura dei propri figli sia un grosso antidoto anche contro la depressione». Poi c’è un’altra (apparente) contraddizione. In un Paese in cima alla classifica mondiale della parità uomini/donne il #MeToo ha avuto una portata devastante. Com’è successo? «È possibile che questa spinta alla gender equality abbia prodotto un’ondata di reazioni da parte di alcuni uomini, anche perché le donne negli ultimi anni sono arrivate in posizioni di potere nuove – dice ancora Hamelberg – Però bisogna anche guardarla dall’altro lato: la soglia di tolleranza femminile per gli abusi è molto bassa, si denuncia senza timori. Il dato forse riflette prima di tutto questa consapevolezza».
La Svezia laboratorio della crisi e della rinascita del maschio occidentale? È un’idea che genera anche ironia, smarrimento, riflessioni letterarie e cinematografiche, da Karl Ove Knausgård ai film pluripremiati di Ruben Ostlund.
Christoph Fielder e Eli Frankel, due amici padri, spingono le loro carrozzine in 40 centimetri di neve, lungo un panorama invernale che toglie il fiato. Fielder è un produttore alla FolkOperan, in congedo. Indossa il chiodo, anelli di metallo e una dozzina di tatuaggi: è il tipo che ti aspetti di incontrare alle 3 di notte in un locale punk, che pure frequenta. Però si sveglia alle 7.30 e porta Linh-Mae, 2 anni, a un museo della città ogni giorno diverso. «Questa storia che a fare troppo i papà si diventa mamme mi fa molto ridere. Sembra una farsa buona per dar fiato a qualche fanatico del determinismo genetico. Essere padre significa farlo, esserci». Frankel invece è un attore, ha fatto tre congedi mai più corti di 8 mesi. Dice una cosa che ripetono tutti: «Avevo mille idee sul padre ideale e ho dovuto rimettermi in discussione su tutto. Ma non riesco nemmeno a sognare di avere un figlio senza prendermi molto tempo per lui. È questione di responsabilità, prima di tutto, ma anche di realizzazione di sé».
Mentre ci salutiamo, sono le 3.30 e su Stoccolma sta già scendendo la sera. Nel contatto email che Frankel ci lascia, il cognome è diverso. «È ancora l’indirizzo vecchio, di quando ero single». Non si è limitato a dare ai figli il nome della moglie. Lo ha adottato anche lui.