la Repubblica, 22 febbraio 2019
Ritratto di Roberto Formigoni
E, alla fine, Roberto Formigoni resta uno dei pochi politici della Prima Repubblica a pagare con il carcere per la corruzione. Forse la vita e la giustizia non dovrebbero funzionare così, ma la riforma voluta dal governo gialloverde impedisce a lui per primo – la sua condanna è superiore ai quattro anni – di essere affidato ai servizi sociali, trasformandolo di fatto in un caso esemplare.
Ieri, a tarda notte, è sparito da ogni chat e i suoi avvocati, secondo indiscrezioni, stanno cercando, così come fece a suo tempo Sergio Cusani durante Tangentopoli, l’ordine di carcerazione. Per permettere a Formigoni di costituirsi in un carcere (Lecco, Opera, Bollate?) ed evitare, si dice, San Vittore.Perché il “Celeste”, come lo chiamavano, in un carcere deve entrare. Senza se e senza ma. E solo dalla cella potrà chiedere di ottenere i benefici possibili ai detenuti. Già ieri sulla rete gli sfottò erano crudeli: «Il celeste lo vedrà a sbarre».
La condanna, vidimata in tarda serata dalla Cassazione, calcola la pena in cinque anni e dieci mesi, conferma l’impianto della Procura e le sentenze precedenti milanesi, i sette anni e mezzo dell’appello calano solo per la prescrizione di uno dei reati. Ma Formigoni s’era condannato in qualche modo da solo compiendo una mossa che oggi appare incredibile: era stato lui, presidente per quattro mandati della Regione Lombardia a diffondere le foto che l’hanno perduto. Lui che si tuffa, lui al mare, lui che cammina sulla spiaggia, aitante, con un segretario di statura decisamente più bassa a fianco. Lui al computer in ciabatte.
Certo, le ha divulgate quando l’inchiesta era ben di là da venire alla luce, e con uno scopo preciso conficcato nella mente: modificare la sua immagine. Da bacchettone baciapile a uomo che sa godersi la vita. Da morigerato cristiano che accetta con gioia i voti di castità e povertà a politico rampante e al passo con i tempi. E come mai questo cambio?
Perché in quel periodo crescevano i guai fisici e giudiziari di Berlusconi e Formigoni – questo sanno bene i suoi fedelissimi – ha creduto davvero possibile ricoprire il ruolo di leader dell’intero centrodestra. Invece – e oggi siamo a 14 anni esatti dalla morte di don Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione che riteneva il peccato di “presunzione” uno dei più gravi – il “Celeste” si ritrova su tutti i giornali, a 72 anni, senza più chance. E l’unica similitudine possibile con Berlusconi è che entrambi si sono sempre rifiutati di lasciarsi interrogare dai magistrati, dentro e fuori i processi.
Formigoni, che si disegnava le giacche color arancio, che preferiva cravatte accecanti e indossava maglioni sorprendenti, che dietro le quinte degli uffici aveva scatti d’ira definiti «epocali», si percepiva come intoccabile e un vincente. Eletto la prima volta nel ’95 con il 41 per cento delle preferenze, aveva sfidato, certo della sua forza politica, la sentenza della Cassazione del 2009 su Eluana Englaro, dichiarando che «mai Eluana», in stato vegetativo da oltre 17 anni, «sarebbe stata terminata in strutture sanitarie della Lombardia» (la Regione è stata poi condannata al risarcimento a favore del padre e tutore Beppino).
Era uno che poteva andare diritto per la sua strada grazie al voto collaudato di un meccanismo perenne (allora) di famiglie che avrebbero dovuto dare tot voti al Celeste, per esempio tot a Mario Mauro, e altre famiglie tot voti a Maurizio Lupi. Un mite esercito che apprezzava il gigantismo di uno che si ricordava degli amici e aveva creato “Palazzo Lombardia”, con i suoi 39 piani di vetro cemento, con un belvedere tutto finestre per dominare Milano. E persino l’eliporto (ora chiuso). Come accaduto ad altri politici e imprenditori, il leader lombardo finisce per incappare della magistratura milanese.
Nel 2011 scoppia lo scandalo Ruby Rubacuori e la consigliera pdl Nicole Minetti, entrata nel “listino del presidente”, si ritrova nei guai. Poi vengono arrestati assessori e politici, uno, Domenico Zambetti, per i rapporti con la ‘ndrangheta. Ed è nello stesso periodo da terremoto che emerge lo scandalo dei 61 milioni di euro usciti dalle casse dell’ospedale San Raffaele e dalla clinica Maugeri per approdare verso l’imprenditore Piero Daccò e l’ex assessore regionale Antonio Simone, amici di lungo corso del Celeste. Il quale diceva: «Sono limpido come acqua di fonte, anche Gesù sbagliò a scegliersi i suoi collaboratori». In verità, dice la sentenza, ha incassato circa 6,6 milioni sotto forma di regaloni, mentre i suoi conti correnti erano immobili: come se vivesse d’aria e non, come hanno testimoniato da un ristorante, di champagne.
Era il 22 maggio dell’anno scorso quando Simone, difeso dall’avvocato Giuseppe Lucibello, a sorpresa chiese il patteggiamento, seguito a ruota da Daccò. Formigoni ci restò male, protestò: è certo che adesso gli è andata peggio.