Corriere della Sera, 21 febbraio 2019
Il Mekong sfregiato da dighe e esplosivi
LUANG PRABANG (Laos) Lungo e strettissimo, il battello scivola sulle acque del Mekong facendo lo slalom tra le rapide e i pescatori che gettano le reti dalle loro povere barche: semplici tronchi scavati. Ogni tanto una sosta davanti ai villaggi per caricare agricoltori diretti in città. I campi arati arrivano fino alla spiaggia sabbiosa, attraversata anche dai bufali che cercano refrigerio nel fiume. Scene di un mondo destinato a scomparire. Le sei dighe costruite dalla Cina nel tratto in cui il fiume, che nasce sull’altopiano del Tibet, attraversa il suo territorio, hanno già ridotto di molto la quantità di pesci pescati nelle sue acque e quella dei sedimenti che fertilizzano le terre del bacino del Mekong: un’area che comprende quattro Paesi (Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam) nella quale vivono 60 milioni di persone la cui esistenza dipende in misura sostanziale dal fiume. Con i suoi 4.500 chilometri il Mekong è il dodicesimo fiume del mondo, ma è anche il più pescoso in assoluto e quello col più alto grado di biodiversità, dopo il Rio delle Amazzoni.
Ora tutto sta cambiando perché le sei dighe costruite da Pechino sono solo l’inizio di un processo destinato a trasformare il Mekong in un sistema di canali navigabili e laghi artificiali attraversati da decine di sbarramenti: la Cina ha in programma la costruzione di altre 21 dighe sul suo tratto del fiume ma, soprattutto, ha lanciato un programma di assistenza economica al Laos, alla Cambogia e alla Thailandia basato sul finanziamento di altre decine di dighe nei loro territori per la produzione di energia elettrica e per consentire a navi di tonnellaggio più elevato di percorrere il fiume dalla Cina fino a Luang Prabang, l’antica capitale del Laos protetta dall’Unesco.
Le organizzazioni ambientaliste sono sul piede di guerra anche perché secondo vari studi alcuni di questi impianti – soprattutto le due grandi dighe laotiane di Pak Beng e Pak Lai e quella cambogiana di Sambor – sono destinate a distruggere l’ecosistema esistente. Ma la loro voce è flebile in un Paese comunista come il Laos, sotto il regime filocinese della Cambogia o anche nella Thailandia che, dopo il golpe militare, si è avvicinata e Pechino riducendo i legami con l’Occidente.
Fin qui la Cina ha fatto notizia soprattutto per il suo espansionismo nel Mar Cinese Meridionale. Secondo molti analisti, però, è più significativo quello che accade sulle rive del Mekong. Con la sua idrodiplomazia, Pechino sta trasformando l’Indocina in una sorta di «cortile di casa»: come l’America Latina per gli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento.
La Cina promette di portare ovunque benessere sotto forma di investimenti in opere pubbliche, produzione di energia idroelettrica, nuove vie di comunicazione. I governi dell’area reprimono il dissenso ma hanno, comunque, anche loro, parecchi dubbi. Al Laos, Paese molto povero e montuoso, è stato promesso di diventare «la batteria del Sud Est asiatico». Sugli affluenti del Mekong e sul fiume sono già state realizzate 46 dighe (per una potenza di 6.500 megawatt) e altre 54 sono in costruzione. Ma i grandi impianti sul Mekong (e il progetto di minare alcuni fondali per rendere il fiume più navigabile) hanno suscitato molte perplessità. Anche perché secondo varie indagini (comprese quelle realizzate in Cina e che non dovevano essere divulgate), i danni arrecati da dighe e canali alla pesca, all’agricoltura e al turismo sono superiori ai benefici (elettricità e trasporti).
Nel luglio scorso, dopo il crollo di una diga nel Laos (70 morti e seimila senzatetto) il governo ha annunciato una sospensione del suo piano. E più a nord, in Thailandia, a Chang Rai, l’uso della dinamite per scavare il letto del fiume è stato sospeso dopo le proteste della popolazione.
Ma in Laos, in realtà, i cantieri non si sono mai fermati e anche altrove non ci sono cambiamenti di rotta in vista: indebitatissimo, il Laos sa che queste opere pubbliche potrebbero rivelarsi in futuro un buon affare solo per Pechino, ma ora ha un bisogno disperato di questi investimenti finanziati dalla Cina (11 miliardi di dollari di prestiti). Il prezzo da pagare è una perdita di sovranità col rischio di conflitti tra Paesi indocinesi, magari messi uno contro l’altro dalla Cina: la River Commission con la quale per decenni i 4 Paesi dell’area hanno gestito il Mekong è stata esautorata nel 2015 da un nuovo organismo di cooperazione multilaterale dominato dalla Cina e con sede a Pechino. È tardi per i rimpianti, dice Thitinan Pngsudhirk, studioso dell’università di Bangkok: la partita la Cina l’ha vinta quando ha creato le sue dighe a monte con le quali, se volesse, potrebbe lasciare a secco i Paesi del bacino del Mekong.