Sotto attacco ci sono però altri simboli della piazza in cui ogni essere umano vuole perdersi almeno una volta nella vita. All’asta stanno per finire anche il Gran Caffè Chioggia, la gelateria Todaro, la Bottega d’Arte, la Fondazione Bevilacqua la Masa, i locali dell’ex ufficio turistico all’Ascensione e la mitica gioielleria Nardi, aperta quasi un secolo fa. Qui, dove a fare shopping erano Grace Kelly, Liz Taylor e la principessa Paola di Liegi, è stato creato il “ Moretto”, turbante di gemme non razzista che resiste quale status symbol. « Nessuna voglia di demolire le leggi del mercato — dice Giulio Nardi — ma l’artigianato di qualità è il cuore dell’identità veneziana. Orafi e vetrai, sarti e ristoratori, non sono comparse, ma l’ultimo patrimonio vivo di una città che non può essere venduta a chi offre di più».
Non siamo al “prima i veneziani”, ma è chiaro che Venezia è Venezia e che, denuncia l’Associazione Piazza San Marco, «pure dentro l’indiscutibile mercato deve restare un angolo a disposizione per l’eccezione». Il problema è che il Demanio, che non a caso il governatore regionale Luca Zaia vuole “venetizzare” con la conquista dell’autonomia, è proprietario di una bella fetta del cuore cittadino: possiede oltre il 90 per cento del Palazzo Reale e il Sud delle Procuratie, per un totale di ventidue fondi, otto dei quali in concessione a locali storici. Non sono spiccioli. Nel 2018 la base d’asta annua per 110 metri quadri è stata di 290mila euro, circa 24mila al mese.
L’incasso annuale per lo Stato è 1,5 milioni. Per 33 metri quadrati defilati dalla massa dei turisti si parte da 46mila euro annui: Lino Cazzavillan ha dovuto cedere il mini- bar sotto le Procuratie Vecchie quando i rilanci dell’asta hanno superato i 50mila euro al mese.
In gioco non ci sono però gli interessi degli storici padroni di San Marco, che tra i residenti faticano a scatenare solidarietà. A rendere tristi è la prospettiva di una piazza ridotta ad un banale centro commerciale, privata di originalità e creatività, conquistata dai brand globali che allestiscono vetrine nelle vie della moda che, con le medesime sequenze di insegne, si ripetono in qualsiasi metropoli del pianeta.
«Lusso industriale — denuncia l’Associazione dei commercianti — ma prima di tutto paccottiglia per comitive e magari souvenir che servono a coprire interessi non trasparenti». A far tremare le botteghe storiche non è infatti solo l’asta degli affitti, ma anche la loro durata. Sei anni, denunciano i legali degli inquilini, « non bastano per rientrare dagli investimenti necessari per ristrutturare e mantenere integri locali di straordinaria bellezza, ma pure fragilità».
Chi offre certe cifre e non ha legami d’affetto con Venezia, l’accusa, lascia poi in abbandono gli spazi occupati solo a termine, per lanciare il proprio brand. È il destino del mordi e fuggi, già imboccato sul ponte di Rialto, dove si moltiplicano i cartelli “Affittasi”, o dalle ultime botteghe artigiane che creano maschere, spazzate vie dalle imitazioni cinesi low cost. Se a contare sono solo gli schei, anche i mercanti veneziani questa volta rischiano di dover emigrare.